L’ultimo saggio di Gianrico Carofiglio
«Noi non ci comportiamo con gentilezza e con coraggio perché è una cosa “carina”. Ci comportiamo con gentilezza e con coraggio perché siamo membri della razza umana». Qualcuno avrà riconosciuto in queste parole la battuta di un celebre film (a fine intervista scoprirete qual è). Gianrico Carofiglio le fa proprie, e le trasforma, nel nuovo saggio Della gentilezza e del coraggio, ora in libreria per Feltrinelli. Le usa al termine di un discorso, intenso e articolato, in cui ci invita a prenderci la responsabilità delle nostre azioni, per poter convivere con gli altri in maniera civile. Per farlo, dice, bisogna iniziare a vedere le cose con altri occhi, sforzarsi di «non abdicare al dovere di pensare criticamente».
Il libro arriva a circa un anno di distanza dal romanzo La misura del tempo (Einaudi), con cui lo scrittore pugliese, ex magistrato, è stato finalista al Premio Strega e in testa alle classifiche per molto tempo. Qui non c’è l’avvocato Guido Guerrieri, il suo personaggio cult: c’è il Carofiglio pensatore, che indaga sui limiti del dibattito in politica e sui social, che smonta tesi e inganni, che va alla “ricerca dei contrari” per fornirci le armi per contrastare l’esercizio opaco del potere e difenderci dall’insulto e dalla stupidità… Con gentilezza.
Ma cos’è questa pratica della gentilezza?
«La gentilezza, come la intendo io, non è il garbo, non è la cortesia, non sono le buone maniere. È invece una dote fondamentale per affrontare il conflitto, che è parte inevitabile dell’esperienza individuale e collettiva. Ci sono due modi per far fronte al conflitto: quello distruttivo che vediamo sui mezzi di informazione, sui social… E il suo opposto. Non significa essere remissivi, rinunciare alle proprie idee o posizioni. Ma esprimerle in una forma che non implica violenza e che può perfino, a certe condizioni, trasformare il conflitto in cooperazione».
Perché cita nel libro le arti marziali?
«Perché ci offrono esempi pratici di quello che ho appena detto. Uno dei concetti di fondo delle arti marziali è che non ci si oppone dinanzi alla forza, ma si cerca di sfruttare la forza o la violenza dell’avversario neutralizzandola. Ovvero, volgendola contro di lui, con il minor dispendio possibile di energie. Se tu mi spingi, invece di resistere, cedo e ti faccio perdere l’equilibrio. Questo ha una funzione duplice: una difensiva, perché evito l’attacco; e una pedagogica, perché ti mostro che l’attacco violento o ottuso non è una buona idea. L’ho imparato praticando le arti marziali fin da quando avevo 14 anni».
L’hanno aiutata nella vita?
«Posso dire senza enfasi che soprattutto la pratica del karate (Carofiglio è cintura nera, 6° Dan, ndr), ha avuto un’influenza significativa: mi ha fatto scoprire chiavi di lettura della realtà, comprese queste, che vanno oltre il combattimento dal punto di vista fisico».
Senza le arti marziali come ci si può difendere dal conflitto, dalla comunicazione ingannevole, dall’aggressività che esistono nella società?
«È come sedersi a un tavolo da gioco. Bisogna conoscere i trucchi di chi bara e dire immediatamente “Guarda che stai barando”, porre domande, dubitare, piuttosto che accettare quel gioco pensando di poter vincere. Perché con i bari è impossibile, l’unico modo per neutralizzarli è svelarne la macchinazione. Così si possono scoprire i trucchi che rendono il dialogo scorretto, nella politica, sui social, nella vita quotidiana. Nel libro ti spiego come si fa, dove guardare».
Sui social ci imbattiamo spesso in rabbia e violenza. Come siamo arrivati a questo punto?
«Odio, intolleranza, stupidità ci sono sempre state. Ma oggi sono amplificate dai mezzi di comunicazione di massa. In passato uno che diceva una stupidata in osteria era abbastanza innocuo. Oggi chiunque può dire una stupidata sui social e, come sosteneva Umberto Eco, “la sua parola conta al pari di quella di un premio Nobel”. Bisogna essere pronti a difendersi. La stupidità, però, non riguarda solo gli altri, ma tutti noi: è l’abdicare al dovere di pensare criticamente. Può succedere perché a volte è faticoso. Perciò dobbiamo vigilare, prima di tutto su noi stessi».
Esiste un antidoto alla stupidità?
«Il senso dell’umorismo – se impariamo a guardarci da fuori, a praticarlo su noi stessi – diventa infallibile contro tutte le rigidità che ci riguardano».
Però molti questo senso dell’umorismo non ce l’hanno
«Aristotele diceva: “L’uomo non nasce virtuoso”. Le virtù sono come i muscoli, se non li alleni si atrofizzano. Più atti virtuosi uno compie, più virtuoso diventa».
Perché nelle discussioni spesso si fa riferimento al passato, a quella cosa che lei chiama retrotopia?
«La retrotopia è collocare l’utopia nel passato. Un luogo che non è mai esistito ma che pensiamo felice. Cosa che ovviamente non è, se guardiamo i numeri: c’erano più delitti, malattie, fame nel mondo. La retrotopia è un “fantasma di felicità” che rende più facile rifiutare il presente, rifiutando l’impegno. Perché il dovere che noi abbiamo è quello di cambiare il mondo di oggi per renderlo migliore».
Si può fare con atti eversivi. Lei dice: «Ridere e camminare senza meta»
«È l’idea del flâneur di cui parla Baudelaire: camminare senza scopo, perdersi nelle città. Così magari ti accorgi di cose e posti che non avevi notato e che ora vedi con occhi nuovi. È con questi atti apparentemente senza scopo che vengono le idee che cambiano il mondo. Succede anche a me, quando cammino».
E Guido Guerrieri, il personaggio di tanti suoi romanzi, usa la stessa tecnica?
«Sì, anche lui è un flâneur».
Il suo pensiero, oltre a essersi plasmato con le arti marziali, è frutto anche del suo vecchio mestiere di magistrato?
«Indubbiamente. Se uno non si lascia prendere dalla routine e non si mette i paraocchi, vede una parte di mondo che altrimenti non vedrebbe mai. E impara tantissime cose. La più importante è non giudicare. Che per un giudice sembra un paradosso, e invece è la sostanza».
Cos’è il coraggio del titolo del suo libro?
«Il buon uso della paura. La paura è la premessa del coraggio, ciò che lo nutre nel momento in cui viene osservata con intelligenza. Un’altra cosa che insegnano le arti marziali, anche se moltissimi non lo sanno, è come trattare la paura che abbiamo dentro. E trasformarla in energia vitale».
L’ultima frase del libro è una parafrasi dal film L’attimo fuggente?
«Sì, da quello».