Ex magistrato e senatore della Repubblica, accademico, scrittore prolifico, salomonico opinionista, cintura nera di karate e sagacia, Gianrico Carofiglio ha profuso le sue variegate competenze, a partire da quella giuridica, al servizio di una missione: riscattare la reputazione di due concetti comunemente demonizzati e vilipesi.
L’ultimo libro di Gianrico Carofiglio
S’intitola Elogio dell’ignoranza e dell’errore (Einaudi) il pamphlet con cui l’autore barese di romanzi e legal thriller torna alla saggistica per riabilitare clamorosi, e talvolta salvifici, casi di fallimenti nella storia del diritto, della scienza, dello sport, smascherare bias annidati tra le pieghe della lingua o del comune sentire, stigmatizzando la mitologia del successo a tutti i costi e, a proposito di competenze, anche la fede cieca nel “parere degli esperti”. In una carrellata ragionata, sviscera teorie e aneddoti, da Socrate a Charlie Chaplin, da Rosa Parks a Roger Federer, dimostrando come a tutti i livelli – personale, professionale, istituzionale – l’errore, così come certe scoperte “preterintenzionali”, siano un aspetto strutturale del nostro stare al mondo e le sconfitte un’opportunità, a patto di imparare a cadere e rialzarsi con grazia. E come, per converso, certezze e saperi assoluti si rivelino spesso un bagaglio insidioso, se non s’accompagnano all’esercizio del ragionevole dubbio.
La sconfitta come opportunità: l’anno difficile di Gianrico Carofiglio
«È un tema su cui rifletto da tempo, nella mia esperienza di magistrato e, in modo meno organico, attraverso i miei romanzi; ho cominciato a pensarci seriamente in seguito a un episodio cruciale della mia storia personale». Nel libro lo racconta con molta franchezza. «Accadde quando fui “bocciato”, contro ogni attesa, al concorso per il comitato scientifico del Consiglio superiore della magistratura a cui ero candidato. La nomina sembrava scontata: la selezione era per titoli e sembrava godessi del plenum, ma all’ultimo momento un paio di consiglieri laici cambiò idea. Ci rimasi male, lo ammetto. Fu un anno difficile, ma quella condizione mi convinse a concedermi il tempo necessario da dedicare alla stesura del mio primo romanzo, Testimone inconsapevole. Sarebbe successo, senza quell’incidente di percorso? Ogni volta che ci penso, avverto la folata del destino».
La nostra intervista a Gianrico Carofiglio, autore cult
Se vuoi far ridere Dio, raccontagli i tuoi progetti: è una battuta yiddish che lei cita, rivalutando l’arte dell’improvvisazione.
«I piani sono utili se non diventano trappole. Il nostro cervello è sostanzialmente una macchina predittiva, costantemente all’erta per anticipare ciò che potrebbe accadere. Non sempre ci riesce in modo accurato. Le nostre vite sono costellate di errori, previsioni disattese. Pure la competenza, spesso, si rivela una trappola. Nel libro racconto come anche ai grandi capiti di sbagliare: nel 1916 Charlie Chaplin si definiva certo che al pubblico non interessasse vedere figure in movimento su uno schermo; nel 1932 Albert Einstein dichiarò che sarebbe stato impossibile produrre energia atomica. Uno studio suggerisce l’esistenza di una proporzionalità inversa tra la fama di un esperto e l’accuratezza dei suoi pronostici, complici la vanità, il narcisismo, l’eventualità che chi è chiamato a fare una previsione si immedesimi troppo col proprio status e perda la consapevolezza della propria relativa ignoranza».
Lei la chiama metacognizione.
«Socrate la definiva sapere di non sapere, Confucio sosteneva che la vera conoscenza stesse nel conoscere l’estensione della propria ignoranza: è una dote rara, richiede una mente lucida, capace di reagire rapidamente a svolte e imprevisti. Il vero esperto è in grado di accorgersi, proprio grazie alle sue conoscenze, che una ricerca lo sta portando fuori rotta. Hemingway sosteneva che la dote essenziale di uno scrittore fosse lo shit-detector, il rivelatore di fesserie. Anche l’improvvisazione richiede preparazione».
La storia dell’umanità è costellata di scoperte casuali, dalla penicillina ai post-it. A quale condizione errori e fallimenti diventano opportunità?
«Molti inciampi non producono risultati positivi e non rappresentano insegnamenti significativi, se non quello di ricordarci la nostra imperfezione, la precarietà dell’esistenza, il ruolo delle fatalità nell’esperienza umana. Accogliere un errore, anche quando non ci porta da nessuna parte, concede però agilità ai nostri movimenti, leggerezza all’esistenza».
Concorda con Goethe sul fatto che gli errori rendono l’uomo amabile?
«È un’affermazione che si può leggere su due piani. Da un lato, la capacità di scusarci, di ammettere errori e fallimenti ci rende sicuramente più gradevoli e simpatici rispetto a chi pretende di essere sempre nel giusto. Dall’altro, l’attitudine a riconoscere i nostri limiti e le zone d’ombra che ci abitano ci riconcilia con noi stessi, con la nostra umanità, con gli aspetti della realtà che non possiamo cambiare».
Ci riconcilia anche con l’idea di fortuna.
«La fortuna esiste, così come la sfortuna: sono il risultato combinato della lotteria genetica, della famiglia o del quartiere in cui nasciamo, del Paese e dell’epoca storica, degli incontri che facciamo. Nel libro cito il filosofo Michael Sandel per contestare l’etica del successo, l’idea che chi arriva in alto se lo è meritato. E, di conseguenza, che chi si trova in basso si meriti di restarci. Questo pregiudizio alimenta in modo pericoloso il rancore sociale, in ultima analisi, i populismi. Riconoscere il ruolo della fortuna vuol dire anche restituire dignità a chi non ne beneficia. È la premessa necessaria per ogni società che insegua la felicità dei suoi cittadini, in una prospettiva egualitaria. Ma la fortuna si può aiutare: tenendo gli occhi sempre aperti sul mondo, provando e riprovando, ponendosi in ascolto, con l’attitudine di chi non teme di sbagliare ed è curioso di apprendere».
Lo chiama lo “spirito shoshin”.
«È una parola giapponese: la virtù di chi conserva sempre una mente e un cuore da principiante».
Come si impara a navigare lungo l’esistenza senza lasciarsi sommergere dalla complessità, dall’incertezza?
«Con la libertà di poter cambiare sguardo e strategia sulle cose e il conforto di percorrere un cammino di scoperta: accogliere questa fertile irresolutezza ci arricchisce e rende infinitamente più affascinante il grande affresco che attraversiamo».