Dell’ultimo film di Guido Caprino non si può dire nulla, pena il rischio di rovinare la visione. Anche lui lo sa: «Non possiamo svelare niente» ripete ridendo, mentre racconta La stanza di Stefano Lodovichi. Si può solo riportare l’incipit: un uomo (Guido Caprino) arriva nella casa spettrale in cui ha prenotato una stanza, ma la proprietaria (Camilla Filippi) non aspettava nessuno… Dopo le serie cult 1992 e Il miracolo, il 47enne attore siciliano si confronta con uno dei suoi ruoli più cupi, dentro un film che pare indefinibile.
Tu come descriveresti La stanza?
«È un thriller psicologico insolito: quando ho letto il copione, mi sono commosso. Mi piaceva dare corpo a un personaggio con un bisogno di giustizia così forte. Sembra cattivo, ma in realtà è buonissimo. Non esistono i buoni e i cattivi, dietro ciascuno c’è un mondo. E io sono interessato dalle figure che restano escluse dalla società. L’empatia non fa parte della nostra epoca».
Un pensiero ben poco confortante
«L’essere umano mi pare piegato su sé stesso ora più che mai. Ci vediamo solo sui social. La società è strutturata per isolare, non per aggregare. E la cosa peggiore è che abbiamo la presunzione inconsapevole di pensare che siamo tutti più vicini, quando invece non siamo mai stati più lontani».
La stanza è stato il primo film che hai girato in tempo di pandemia?
«In realtà è il primo set dopo una pausa di un anno e mezzo: l’ultimo era stato quello di 1994, andato in onda a ottobre 2019. A volte mi prendo degli stop molto lunghi. Il personaggio di Bosco (il deputato leghista della serie Sky, ndr) mi ha abbastanza straziato (sorride, ndr). Era ricco, complesso. Ed era difficile trovare un altro ruolo all’altezza. Preferisco non lavorare finché non ho un personaggio magari totalmente opposto, ma allo stesso livello».
Stare fermo non ti pesa?
«Cerco di non farmi logorare dall’attesa, cioè quello che sfinisce gli attori, facendo altro. Sto in campagna, penso al mio mestiere come a un’eco lontana. E cerco di non stare lì ad aspettare qualcosa per forza: tanto poi arriva».
Puoi anche permetterti di farlo, dopo il successo degli ultimi anni
«L’ho sempre fatto. La mia legge è: la carriera si costruisce sui no. È così fin dall’inizio, anche quando non potevo scegliere come ora: molti ruoli li ho rifiutati comunque, perché non mi sentivo onesto. Se faccio una cosa che non mi piace, si vede: mi sento di truffare la gente. Un progetto deve sempre suscitarmi l’effetto che fa un gioco su un bambino. Quest’anno, nonostante il Covid, ho fatto 3 film di seguito, cosa a cui non sono abituato».
Tra questi c’è Tutti per 1 – 1 per tutti, il seguito di Moschettieri del re, ora su Sky. Finalmente una commedia
«Interpretare questa versione molto libera di Cyrano che incontra i moschettieri, cosa che nella letteratura non è mai avvenuta, è stato divertentissimo. Anche perché la storia è vista attraverso gli occhi di un bambino, perciò vale tutto».
L’infanzia è, senza fare spoiler, anche al centro di La stanza. La tua com’è stata? C’era già il seme della recitazione?
«Ho sempre avuto un’attrazione per la messinscena, fin da piccolo. Ma ho cominciato a sperimentare a 17 anni: mi divertivo a fare dei corti molto pulp con un mio amico, Maurizio, che è diventato ingegnere. Poi ho seguito mio cugino nella sua compagnia teatrale dialettale, e dopo c’è stata la scuola di recitazione, tanto teatro…».
Vivendo in campagna, in Sicilia, questo per te non è stato un anno così diverso
«Affatto. Anzi: mi faceva ridere vedere tutti diventare fornai (ride, ndr). Io sono un nostalgico, questo stile di vita l’ho sempre predicato. Poco prima del lockdown, non si poteva non pensare al nostro Pianeta e a come stesse andando verso un punto di non ritorno. Speriamo di fare tesoro di questa esperienza, altrimenti ne usciremo solo frustrati, sentiremo solo le limitazioni. La lezione è che bisogna sempre pensare a un’alternativa. Ripartire come se non fosse successo niente mi sembra davvero da immaturi».
La tua scelta di isolamento è stata quasi profetica
«Sono isolato relativamente, prendo spesso gli aerei, mi muovo: non è che sto ad arricciarmi la barba sul crinale (ride, ndr). Però è da 8 anni che sono qui, sopra Taormina, dove sono nato. Si può far passare come un atto eroico, ma in realtà è una scelta fatta per semplicità: soffro meno a stare qua che in mezzo ai salotti. Non credo sia fondamentale essere sempre mezzo a tutto e tutti. Da attore, penso anzi che sia importante rigenerarsi altrove. Stare in campagna mi fa sognare di più. E, come diceva Shakespeare, gli attori devono sognare».
Qual è l’ultimo lavoro “da contadino” che hai fatto?
«La campagna la odi e la ami, soprattutto qui in Sicilia, dove a volte fare le cose è impossibile. Non ti nego che magari tra un po’ me ne andrò da un’altra parte: ma vedremo, voglio dare ancora un po’ di tempo alla mia terra. Comunque: sono andato a prendermi un trattorino in Piemonte per sistemare una piccola vigna e innestarla con dei ceppi autoctoni di questa zona. L’ambizione, nel tempo, è costruire un posto che leghi agricoltura e teatro: secondo me vanno molto d’accordo».
Farai anche il vino?
«Il mio vino lo faccio già: “mio” nel senso che è per me e per i miei amici. Ecco, il futuro dopo questo periodo lo vedo così: tante piccole comuni di gente che si sceglie. E decide di stare insieme».