Il rituale di Harvey Weinstein
IL RITUALE ERA SEMPRE LO STESSO: l’invito in una camera d’hotel dove Harvey Weinstein si faceva trovare nudo, la richiesta di un massaggio, le avances insistenti, la promessa di fare carriera. Poi, la pretesa del silenzio, lo screditamento. Così Harvey Weinstein, produttore hollywoodiano, circuiva le sue vittime.
L’inchiesta da cui è nato il #MeToo
Qualcuna riusciva a svicolare, altre cadevano nella rete. Tutte rimanevano ferite, svilite, annientate. Per la vergogna e la paura davano le dimissioni o accettavano un accordo per restare zitte. Lo rivelano le numerose testimonianze raccolte dalle reporter Jodi Kantor e Megan Twohey in una serie di articoli usciti nel 2017 sul New York Times che misero fine a 30 anni di complicità e silenzi e provocarono un terremoto nello star system. Da allora le donne hanno cominciato a parlare, a denunciare molestie e ricatti in diversi ambienti di lavoro. E il movimento #MeToo – da un hashtag creato nel 2006 da Tarana Burke per denunciare le violenze sessuali subite dalle donne nere – è divampato come un fuoco.
Mesi di investigazioni su Harvey Weinstein
Il primo articolo di Jodi Kantor e Megan Twohey è uscito il 5 ottobre 2017, dopo mesi di investigazioni, ricerche, viaggi negli Stati Uniti e all’estero, interviste confidenziali con le vittime. Molte erano impiegate della Miramax, la casa di produzione fondata da Harvey col fratello Bob, altre erano le sue assistenti personali che, se non venivano palpeggiate o costrette a spogliarsi, dovevano accogliere e organizzare la “trappola” per le altre ragazze. Tante le attrici famose. Tutte giovani e all’inizio della loro carriera. Nel 2019 Jodi Kantor e Megan Twohey hanno messo insieme le testimonianze e i documenti a cui avevano lavorato per 2 anni nel libro She said (in italiano Anche io, Vallardi, in libreria), dal quale è stato tratto il film con Carey Mulligan e Zoe Kazan.
“Lo dice lei”
She said – “Lo dice lei” – è un titolo che racchiude l’ambiguità di come vengono trattate queste questioni. «È un omaggio alle donne che, nonostante tutto, hanno avuto il coraggio di denunciare» hanno detto le autrici «ma è anche un atto d’accusa: “È quello che dice lei, non ha prove” è diventata la risposta standard per zittire le vittime di abusi». «Non posso cambiare quello che ti è accaduto in passato, ma insieme possiamo utilizzare la tua esperienza per proteggere altre persone» era la frase con cui Jodi e Megan riuscirono a convincere le donne a parlare. A raccontare storie tremende, alcune tenute dentro per oltre 20 anni.
Storie tenute dentro per 20 anni: Laura e Rose
Come quella di Laura Madden, ex assistente di Weinstein. Nel 1992 aveva 21 anni e viveva nelle campagne irlandesi. Quando cominciarono a girare un film nelle vicinanze ottenne un lavoro come coordinatrice delle comparse, poi fu assunta sul set del film È vietato portare cavalli in città e incappò in Weinstein, che la invitò nella sua stanza d’albergo a Dublino. Quello che successe dopo è agghiacciante. Molti anni dopo, mamma di 3 figlie in Galles, è stata la prima ad accettare di parlare a microfoni accesi nonostante un recente divorzio e un cancro al seno.
Anche Ashley Judd fu una vittima di Weinstein
Rose McGowan, che mesi prima aveva accusato un produttore di averla violentata, senza farne il nome, non voleva parlare col New York Times (ma stava scrivendo il suo memoir), altre star del cinema si barricavano dietro a un muro di silenzio. Ashley Judd decise invece di mettere a repentaglio la sua carriera raccontando di quando, poco più che 20enne, fu invitata al Beverly Hills Hotel di Los Angeles durante un evento. Stesso copione anche per lei, che però riuscì a respingere Weinstein. Ma non ce la fece poi a convincere le colleghe a denunciare. «Lui fa così, dissero le altre. Fa sempre richieste del genere» scrivono Kantor e Twohey.
Harvey Weinstein era già conosciuto nell’ambiente
Il nome di Harvey Weinstein, quando uscì l’inchiesta, non era nemmeno così noto. La sua fama di golden boy del cinema si era anche un po’ appannata. E il suo modo di agire era ben conosciuto nell’ambiente. I dipendenti chiudevano gli occhi, le denunce venivano insabbiate con la complicità dei responsabili delle risorse umane, di alcuni avvocati senza scrupoli, di persone del suo entourage. Quando iniziarono la loro ricerca, Jodi Kantor e Megan Twohey avevano poche informazioni «e quasi nessuno era disposto a parlare con noi. I molestatori erano accettati, incoraggiati persino, come fossero delle simpatiche canaglie. Era raro che andassero incontro a conseguenze serie». Megan lo aveva già sperimentato con Donald Trump: nonostante una sua inchiesta, anche questa del New York Times, sui suoi atteggiamenti sessisti e le molestie, diventò presidente. Gli articoli che invece scrisse insieme a Jodi Kantor cambiarono tutto: «Abbiamo visto con sorpresa crollare la diga» hanno detto. Il giorno dopo la pubblicazione del primo articolo di 3.300 parole, così tante donne telefonarono al giornale per denunciare molestie e aggressioni da parte di Weinstein che il New York Times dovette affiancare loro altri giornalisti.
E ora altri 16 anni per lo stupro della modella “italiana”
Per un secondo articolo parlarono con Gwyneth Paltrow (che con Weinstein aveva vinto l’Oscar per Shakespeare in love), Angelina Jolie, Rosanna Arquette. Un terzo travalicò i confini degli Usa. Dopo una battaglia legale durata due anni e mezzo, Harvey Weinstein è stato condannato nel 2020 a 23 anni di carcere per stupro e violenza sessuale. A questi anni, è notizia poi di pochi giorni fa, Weinstein è stato condannato ad altri 16 anni, colpevole dello stupro all’attrice e modella Evgeniya Chernyshova nata in Siberia ma residente in Italia.