«È bellissimo essere di nuovo qui, sull’Hollywood Boulevard, una strada che ha un posto speciale nel mio cuore». La platea del Chinese Theater di Los Angeles scoppia a ridere quando Hugh Grant, con l’umorismo british che lo contraddistingue e di cui dà prova anche in questa intervista, fa riferimento a quella notte del 1995 in cui fu arrestato dopo essere stato sorpreso in macchina con una escort a pochi metri dal teatro. Diventato una star mondiale grazie a indimenticabili rom-com, l’attore inglese che balbettava in modo affascinante in Quattro matrimoni e un funerale (1994) o Notting Hill (1999) e che ballava sulle note della band The Pointer Sisters in Love Actually (2003) non si è però sottratto a ruoli inquietanti nel corso della sua carriera più recente: dal narcisista della miniserie The undoing – Le verità non dette al gangster di The Gentlemen.
Bridget Jones e Heretic, i nuovi progetti di Grant
Oggi, a 64 anni, torna al cinema nei panni di due personaggi antitetici ed entrambi gli calzano a pennello. Sono contemporaneamente in sala, infatti, Bridget Jones – Un amore di ragazzo, la commedia romantica che più romantica non si può, e Heretic, un thriller psicologico con venature horror. Nel primo Grant torna a interpretare Daniel Cleaver, storico ex della single più famosa al mondo, mentre nel secondo è il signor Reed, un uomo di mezza età ossessionato dalla religione che sequestra due giovani missionarie mormoni arrivate a bussare alla sua porta e le trascina in un infernale labirinto di manipolazioni e menzogne. «Questo ruolo è stato una sfida, ma penso che gli esseri umani abbiano bisogno di sfide» dice. E sorride: «La sera la birra è più buona se durante il giorno hai scalato una montagna».
Hugh Grant: oggi faccio il cattivo
Ha già interpretato personaggi negativi, ma Reed è davvero terrificante. Perché ha accettato?
«Il mio ultimo horror è del 1988, La tana del serpente bianco, ma non credo di aver spaventato nessuno in quel film, se non per la pessima qualità della mia recitazione! Scherzi a parte, sono attratto dalla cattiveria e credo che l’horror sia un filone molto interessante da esplorare. Piace perché il mondo sta andando a rotoli e vogliamo vedere una realtà più spaventosa di quella che stiamo vivendo».
Ha visto qualche film horror di recente?
«No, non riesco, mi fanno troppa paura. Ho guardato L’Esorcista quando ero giovane e mi sono letteralmente ca**** addosso… E sono ancora spaventato da Midsommar – Il villaggio dei dannati, ambientato in un paesino della campagna svedese, che ho visto una sera con mia moglie (Anna Elisabet Eberstein, sposata nel 2018, con cui ha avuto tre figli, ndr) perché pensavo fosse una commedia. Da allora siamo entrambi in terapia (ride, ndr)».
Ha preparato il suo Mr. Reed per mesi. Perché?
«In passato ho lavorato con registi che non descrivevano nel dettaglio i personaggi che avevano in mente e per me interpretarli non era facile. Questa volta, invece, volevo essere “sul pezzo”: ho passato mesi a chiedere informazioni sul passato di questa persona, capire chi fosse, da dove venisse, quali problemi avesse avuto nella sua infanzia. E per fortuna devo dire che i due registi americani, Scott Beck e Bryan Woods, hanno risposto a tutte le mie domande».
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La svolta drammatica
Qual è stato il momento di svolta in cui ha scelto di fare film più drammatici?
«Direi quando sono diventato vecchio e brutto. Adesso nessuno mi chiede più di interpretare un rubacuori! Amo tutti i miei film, sono contento di averli fatti e sono orgoglioso che molti piacciano ancora, ma era tempo di crescere. Ho sempre voluto essere l’attore che sono oggi, però 30 anni fa nessuno mi prendeva molto sul serio, la mia faccia era troppo dolce per fare il cattivo».
Adesso che è passato a ruoli più cupi c’è qualcosa che rinnega dei primi personaggi nelle rom-com?
«No, affatto, è stata un’evoluzione graduale. Ho imparato molto dai miei errori e oggi so che è tutta una questione di preparazione. So come far ridere. E come dire una battuta divertente. So che se provo un dialogo allo specchio e poi lo ripeto davanti alla cinepresa ottengo un risultato disastroso. Per questo improvviso molto, anche se conosco a fondo il mio personaggio: mi aiuta a rimanere “fresco” mentre giro una scena, a evitare di diventare rancido e ammuffito».
Considera i ruoli più drammatici più gratificanti?
«Sì, sono quelli che ho sempre voluto interpretare da quando ho iniziato a recitare, a 20 anni. Ma allora mi chiedevano di fare solo personaggi leggeri, macchiette, imitazioni. Da bambino ero un clown, alla costante ricerca di approvazione, tanto da far impazzire genitori e amici. Non ero mai me stesso. Gli insegnanti mi dicevano: “Smettila. Facci vedere Hugh Grant”. Ma io non sapevo ancora chi fosse. È stato molto strano avere successo come protagonista di commedie romantiche in cui non ho mai potuto essere il vero me. Ma alla fine, grazie a quei ruoli, ho imparato tanti trucchi del mestiere e sono diventato un attore più complesso».
Una cosa che odia?
«Lo smartphone. I cellulari sono i nuovi giocattoli del diavolo, per me ci stanno uccidendo. Ogni tanto mi prendo una vacanza di due o tre giorni da questi oggetti orripilanti e rinasco. Meraviglioso!».
Hugh Grant, prima della fama
Prima di diventare un attore di fama internazionale, che lavori ha fatto?
«Sono stato un ottimo cameriere in un ristorante su Kings Road molto popolare tra la clientela gay: prendevo tantissime mance perché scherzavo con i clienti e li salutavo sculettando. Ho avuto anche un periodo buio in cui pulivo i gabinetti dell’Ibm a Londra. Un giorno, mentre stavo andando al lavoro, ho sperato che l’edificio prendesse fuoco e quando ho girato l’angolo stava bruciando davvero… Mi sono spaventato, non sapevo di avere questo potere! Da allora cerco di non usarlo troppo (ride, ndr)».
Un ruolo fortunato?
«Il Charles di Quattro matrimoni e un funerale di Mike Newell, uscito nel 1994. Quando ho letto la sceneggiatura, ho capito che era un bellissimo personaggio. Chiamai il mio agente chiedendogli se avesse sbagliato, perché mi dava solo ruoli disgraziati. “No, nessun errore” mi disse. Gli chiesi: “Ma sei sicuro che fosse per me?”. Mi rispose: “No, non era per te, era per Tom Cruise, ma deve fare un altro film (Jerry Maguire, ndr). Lo vuoi?”».
Ha qualche rimpianto, oggi?
«Moltissimi. Così tanti che non saprei da dove cominciare. Vorrei essere più creativo, più proattivo, meno pigro, più deciso, avrei voluto scrivere più ruoli per me stesso, ma ho sempre trovato scuse assurde per non farlo. Eppure, non so come, sono in qualche modo ancora famoso. Mi adagio sulla vita facile, non è una grande scusante, ma non credo di voler cambiare. Sto troppo bene, anche negli errori».