Un italiano su quattro traslocherebbe se nel suo quartiere vivessero molti stranieri. E solo uno su dieci ha un amico musulmano. Lo dice un recente sondaggio dell’istituto di ricerche Doxa. Segnali di razzismo? «Segnali d’ignoranza» commenta Tahar Ben Jelloun, scrittore tra i più famosi d’Europa e opinionista del quotidiano la Repubblica. Lui, 61 anni, marocchino di nascita e francese d’adozione (vive a Parigi dal 1971), dell’argomento è un esperto. In libreria è appena arrivata la seconda edizione del suo bestseller Il razzismo spiegato a mia figlia (Bompiani), arricchita del capitolo “Il montare dell’odio“, sul conflitto mediorientale. Il libro è il dialogo tra l’autore e la giovane Merièm, sua figlia, che aveva dieci anni quando il volume uscì la prima volta nel 1998.
«Ignoranza, sì. Ma il razzismo, si sa, proprio di questo si nutre» dice Ben Jelloun nel suo studio che s’affaccia fra i tetti parigini. Mentre, tre piani più sotto, lungo il boulevard, passeggiano decine e decine di ragazzi di ogni colore. Sembra così lontana da qui l’idea che una pelle diversa possa generare odio. «Invece, viviamo in un’epoca violenta in cui l’ostilità verso gli stranieri avanza» dice con amarezza lo scrittore. «Se vogliamo combatterla dobbiamo cominciare proprio dai giovani».
“Il razzismo spiegato a mia figlia”, di Tahar Ben Jelloun è su Bol.com
Gli altri libri di Tahar Ben Jelloun
Le novità di febbraio in libreria
Qual è la prima cosa da dire a un ragazzo per spiegare il razzismo?
«Che si è razzisti quando si tratta con diffidenza, e addirittura disprezzo, chi ha un aspetto fisico o una cultura diversa dalla nostra. È un atteggiamento universale. Nel senso che è comune a tutte le società. Anche a quelle del passato. Alcune lo hanno esaltato più di altre. Come il Sudafrica dell’apartheid o la Germania nazista. Ma tutte lo hanno visto nascere».
Alimentato da che cosa?
«Da paura e ignoranza. Paura del diverso, di chi non ci somiglia. Noi esseri umani abbiamo bisogno di sentirci rassicurati e temiamo ciò che rischia di turbare le nostre certezze. Così, di fronte a uno straniero, c’è chi reagisce con la convinzione che quello straniero, chiunque sia, gli voglia portare via le sue cose. Allora ne diffida quasi per istinto. Eppure è dall’incontro fra le diversità che escono cose meravigliose».
Ci faccia un esempio che i giovani possano comprendere.
«La musica. Dal mix di suoni caraibici, africani, americani ed europei non nascono forse canzoni bellissime?».
Oltre alla paura, ha citato l’ignoranza. Ignoranza di cosa? In fondo ci sono razzisti anche fra persone colte.
«Non riusciamo a metterci in testa che le razze umane non esistono. Lo dice anche la scienza. Quindi non ce ne può essere una superiore alle altre. Esiste un genere umano nel quale ci sono uomini e donne, gente con colori diversi della pelle, persone alte e basse. Poi c’è un’altra ignoranza. Che cosa sa davvero un europeo dei pensieri e della vita di un africano? Da questa mancanza di conoscenza degli altri nascono tantissimi pregiudizi. Generalizzazioni assurde. Per un razzista, se uno è albanese o zingaro, deve essere per forza un ladro».
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Le parole sono un’arma pericolosa in mano ai razzisti.
«Oh, sì! I ragazzi dovrebbero far sparire dal loro vocabolario espressioni del tipo “lavorare come un negro” o “muso giallo”. Parole che fanno male, quasi quanto le botte date a un compagno di classe solo perché ha la pelle scura».
E i comportamenti razzisti degli adulti? Quali sono quelli più diffusi oggi?
«C’è l’imprenditore che, fra un operaio straniero e uno non straniero con le stesse competenze, sceglie il secondo. C’è chi si rifiuta di affittare un appartamento a chi arriva da un altro Paese. C’è il poliziotto che usa due pesi e due misure a seconda del colore della pelle di chi ha davanti. In Francia ultimamente ci sono anche i proprietari dei locali notturni che impediscono agli arabi di entrare».
E vietare alle ragazze musulmane di portare il velo a scuola cos’è secondo lei?
«Non è razzismo».
Perché?
«Il velo è diventato un simbolo politico. Chi lo porta è come se dicesse: condivido le idee di mio padre o di mio fratello o di mio marito che mi vogliono ubbidiente, non libera. Ma noi viviamo in una società in cui le donne hanno lottato per emanciparsi, acquisire dei diritti. Non possiamo tornare indietro».
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Il nuovo capitolo del libro è dedicato al conflitto ebreo-palestinese. Che cosa c’entra con il razzismo?
«Il legame fra terrorismo e razzismo è fortissimo. Uccidendo degli innocenti, il terrorismo suscita un odio, un razzismo che supera i confini dei singoli Paesi e coinvolge popoli interi».
Ma perché parlare ai ragazzi della questione palestinese e non del terrorismo di Bin Laden?
«Sono convinto che solo trovando una soluzione alla questione palestinese si potrà risolvere il dilagare del terrorismo».
Lei, marocchino che vive in Europa, è mai stato vittima del razzismo?
«Episodi di poca importanza».
E i suoi figli?
«Mai. Veramente c’è il secondo che… ha la sindrome di Down e lui, sì… ma forse è improprio parlare di razzismo. C’è qualcosa di diverso nella diffidenza verso gli handicappati. L’argomento meriterebbe un discorso a parte».
Quando va nelle scuole per parlare del libro, cosa le chiedono i ragazzi?
«”Come facciamo a spiegare il razzismo ai nostri genitori?”. In effetti, con gli adulti l’impresa è più difficile».
Come si può evitare, allora, di diventare adulti razzisti?
«Bisogna imparare a conoscersi, ridere insieme, condividere i momenti di piacere e dolore. Anche viaggiare è importante. Gli stranieri non reclamano amore e amicizia, vogliono rispetto. E il rispetto comincia con la conoscenza».
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