Reduce da un intervento a un piede, Elena Sofia Ricci si prepara a salire ancora una volta la scalinata del Quirinale, dopo essere stata proclamata da Mattarella nel 2017 Ufficiale della Repubblica. «Da ieri ho rimesso le scarpe, ma per la gioia ho esagerato: alla sera non ne potevo più». L’apprensione è lecita. In occasione della Giornata della Memoria del 27 gennaio, è chiamata a rievocare Giulia Spizzichino, sfuggita da ragazzina alla deportazione degli ebrei romani: perse 7 familiari alle Fosse Ardeatine, altri 19 ad Auschwitz; la sua testimonianza fu fondamentale per far estradare dall’Argentina, nel 1994, il nazista Erich Priebke e condannarlo, dopo un burrascoso iter giudiziario, all’ergastolo.

Elena Sofia Ricci porta Giulia Spizzichino al Quirinale

Al Quirinale l’attrice fiorentina pronuncerà alcuni discorsi di Spizzichino, che ha ottenuto di inserire anche nel film in cui ripercorre la sua esistenza tormentata e stoica: La farfalla impazzita, tratto dall’omonimo memoir edito da Giuntina, in onda su Rai 1 il 29 gennaio. «Ogni volta su quelle scale mi tremano le gambe, mi servirà la fermezza di Giulia: ha condotto una battaglia difficile, con costi altissimi nella sua vita privata».

Intervista a Elena Sofia Ricci
Blazer di nappa lungo con cintura in vita Sportmax. Orecchini e anelli di diamanti. Crivelli. Foto Roberta Krasnig. Styling Cristina Nava.

Giulia Spizzichino, la testimone contro il nazista Erich Priebke

Spizzichino si è spenta nel 2016, a 90 anni. Ha conosciuto i familiari? «Ho incontrato la sorella Valeria, bambina ai tempi del rastrellamento. Ma è il figlio Marco che mi ha schiantato il cuore. Ha insistito per starmi accanto, da comparsa, nelle scene del processo nell’aula del Tribunale militare di Roma in cui si svolse quello vero. Un modo per stare ancora con la madre nel suo estremo atto di coraggio. Nel libro Giulia ammette d’essere stata fredda, anaffettiva: quei lutti hanno congelato i suoi sentimenti, costringendola a vivere per i morti. Come una farfalla impazzita, così si definiva, che si dibatte intorno alla luce, senza pace».

intervista a Elena Sofia Ricci

Elena Sofia Ricci in La farfalla impazzita, il 29 gennaio su Rai 1. Il film è tratto dall’omonimo memoir di Giulia Spizzichino, ebrea romana sopravvissuta alla Shoah.

Intervista a Elena Sofia Ricci

Quel caso fece storia. Quali parole di Giulia l’hanno colpita?

«In una conferenza stampa, quando lottava per far estradare Priebke, riferendosi alle madri e alle sorelle dei desaparecidos argentini con cui si alleò, disse due cose importanti: la prima è che tutti i carnefici sono carnefici e tutte le vittime sono vittime, in ogni tempo in ogni luogo».

La seconda?

«Disse che la guerra e la politica non possono mai essere una giustificazione per non assumersi la responsabilità di ciò che si fa».

Parole che risuonano nel nostro presente.

«Per questo le ho volute nel film, che giustamente ci ricorda la Giornata della Memoria e l’infamia delle persecuzioni contro gli ebrei, ma deve parlare a tutti: mai come ora la storia di Giulia diventa un grido di dolore per tutte le vittime di carneficine, non importa quali, spinge ciascuno a fare i conti con la propria coscienza».

Qualcuno in particolare?

«Non vorrei essere equivocata: ci sono differenze importanti tra l’Olocausto e ciò che accade ad altri popoli. Gli ebrei vennero setacciati casa per casa, chirurgicamente individuati, perseguitati e deportati. Ma con modalità diverse oggi moltitudini di civili continuano a morire in tante parti del mondo».

La memoria che Giulia difende con tenacia Teresa Battaglia, la sua ispettrice protagonista dell’acclamata serie Rai, la sta lentamente perdendo.

«La perdo un po’ anch’io. Ieri ne ho fatta una delle mie: ho dato appuntamento alle mie amiche e poi me ne sono scordata. Dimenticare le cose è una iattura: le gioie e i dolori che abbiamo attraversato ci hanno resi ciò che siamo. Ricordare ci permette di evolvere, sciogliere i nodi più aggrovigliati. Per chi, come Teresa, soffre di Alzheimer perdere la memoria è terribile. Ma per quanti arrivano serenamente a un certo punto della vita, quel lasciare andare può essere un sollievo, un colpo di genio del Padreterno».

In che senso?

«Questa vita è così interessante che doverla lasciare mi fa girare le scatole, mi addolora, mi spaventa. Spero di arrivarci tardi e, come dire, non proprio lucida: nel giusto stato di grazia».

Cappotto a vestaglia di cashmere Max Mara. Gioielli con diamanti Crivelli

A proposito di nodi, questo mestiere l’ha aiutata a sbrogliarne alcuni?

«Ho acquisito consapevolezza grazie a un lungo percorso di psicoterapia; dopo qualche giretto nei vicoli della mia anima, ho capito che ero in parte responsabile di ciò che mi accadeva e dovevo lavorare su quei nodi. Da allora alcuni personaggi hanno preso a parlarmi. Cominciò con Ultimo minuto di Pupi Avati. Avevo 24 anni, quel ruolo mi spinse a fare i conti con una voragine di indeterminatezza che era anche mia: il rapporto con un padre che non c’era».

Lo ha recuperato?

«Solo anni dopo. Senza puntare il dito, cercando di fare la mia parte. Per tornare alla questione ebraica, anche la Sylvia Gellburg di Vetri rotti di Arthur Miller mi ha sussurrato all’orecchio profonde verità. I vetri rotti del titolo non sono solo quelli della Notte dei cristalli, a cui la storia ci riporta, ma i frantumi che nascondiamo sul fondo delle nostre anime. A ogni replica realizzavo quanto quel testo mi riguardasse. Come Teresa Battaglia».

Cosa le sussurra Teresa?

«Lei non sussurra: s’è presa la libertà di dire ciò che pensa in modo ruvido. Mi ha insegnato molto. Ho sempre avuto paura di dire le cose, per rispetto, timore di disturbare o ferire. Come la Sylvia di Vetri rotti, ho vissuto in punta di piedi per 60 anni. Da quando ho più rispetto per me, mi sono liberata di quel timore, che è spesso stato usato male».

Ha trovato il coraggio di confessare un abuso subito da bambina.

«Fino ai 20 anni, per sopravvivere, ho esercitato una forma di dissociazione. Il ricordo è riemerso con le prime relazioni importanti. Lo confidavo a chi amavo, col terrore che mia madre sapesse: inconsapevolmente, fu lei a consegnarmi nelle mani del carnefice. E io – la bambina che non voleva disturbare – volevo risparmiarle quel senso di colpa che se la sarebbe portata via».

Quando s’è liberata del segreto?

«Dopo la sua morte. Alla prima occasione in cui mi hanno fatto la domanda giusta. Mi sono detta: se, con la mia visibilità, posso aiutare anche solo una ragazzina, una donna, faccio una cosa importante. E qui torniamo al valore cruciale della testimonianza, all’importanza di dare credito a chi denuncia».

Giacca jacquard misto seta con chiusura a foulard, pantaloni in completo, tutto Etro. Anelli con
diamanti Crivelli.

Come si sente a essere definita vittima?

«Bisogna distinguere. Da un lato c’è il vittimismo, dall’altro le vittime vere: bambine, com’ero io; donne, quali che siano le loro abitudini, qualunque cosa indossino. Contano le asimmetrie, il potere esercitato su di noi. Anche se la porta è aperta, da certe situazioni è difficile, o impossibile, allontanarsi».

Ha dichiarato di sentirsi in credito col maschile.

«Non mi aspetto un risarcimento. Sono stata spesso collusiva con certe dinamiche un po’ tossiche. L’altro giorno, col mio primo marito, ormai un fratello, commentavamo la mia intervista a Belve, riflettendo sulla crisi degli uomini che quella trasmissione ha evidenziato. Hanno sempre più difficoltà a stare al passo con noi, quanto a consapevolezza e ironia. Lo racconta bene Paola Cortellesi nel suo capolavoro C’è ancora domani, che fotografa la genesi di un percorso straordinario di evoluzione femminile. Lo evoca, con colori diversi, Diamanti di Ferzan Özpetek».

L’ha definito «una bomba d’amore per le donne». «È una dedica alla nostra intelligenza emotiva, all’incessante fatica di allineare la battaglia sui diritti ai bisogni profondi. Ho sentito la mia vera anima finalmente accolta, senza giudizi: quella piccola Elena Sofia un po’ arrabbiata, ferita, mal combinata che ho sepolto per anni e ora sto liberando».

Che si dice orgogliosamente sola, «vicina alla clausura come suor Angela di Che Dio ci aiuti», che sta per tornare a interpretare. «Ho usato suor Angela per scherzare sulla castità, ma quando ho rivendicato di essere sola, non single, intendevo questo: non sono su piazza, non cerco. Mi prendo cura di me. Figlie a parte (Emma, 28 anni, e Maria, 20, ndr), che stanno in un altro campionato, la priorità ora sono io».

Maxi abito plissettato Marina Rinaldi. Orecchini di diamanti Crivelli.

(Ha collaborato Chiara Sarelini. Make up Elisabetta Emidi. Hair Eleonora Migliaccio).