Inventing Anna, la serie Netflix
Questa storia è del tutto vera, tranne le parti completamente inventate. È il disclaimer arguto che compare all’inizio di ogni episodio di Inventing Anna, la serie Netflix, disponibile dall’11 febbraio, creata e prodotta da Shonda Rhimes, quella di Scandal e di Grey’s Anatomy, pioniera di uno specifico genere televisivo basato su eroine discutibili e battute ben scandite.
Stavolta la protagonista è Anna (sedicente) Delvey, una biondina sbucata dal nulla che per qualche anno ha fatto la vita della ricca ereditiera a New York avendone sì l’aria, ma non la solvibilità. Lo spunto è un articolo uscito nel 2018 sul New York Magazine, in cui la giornalista Jessica Pressler – che in carriera aveva già avuto modo di esplorare i labirinti dell’altrui mitomania – si incaponisce a trovare un filo logico, oltre che cronologico, nel racconto di imprenditori, artisti, banchieri, intellettuali rampolli e dame della buona società, tutti caduti nella trappola di questa 20enne spudorata. E tutti tormentati dalla stessa domanda: chi è davvero Anna? E come diavolo è riuscita a sfangarla così a lungo?
Una storia incredibile
La storia vera è del tutto incredibile, ma non per colpa delle parti inventate. Anna Sorokin nasce a Domodedovo, ordinaria provincia moscovita, nel 1991: il papà è camionista, la mamma gestisce un alimentari di quartiere. A 16 anni si trasferiscono tutti in Germania, lei fa un po’ di fatica con il tedesco ma è una ragazza sveglia, appassionata di moda, piuttosto abile nel governare le dinamiche sociali (il suo film preferito è Mean Girls, un manuale per la decodifica dei comportamenti umani sotto forma di commedia per giovinette: se sopravvivi alle angherie delle api regine al liceo, non c’è manipolazione che possa spaventarti da grande).
Anna si iscrive alla Central Saint Martin, prestigiosa scuola di arte e design a Londra, ma poi cambia idea e va a Parigi: stagista per la rivista Purple, presenza fissa nei feed Instagram della moda che conta. Ed è qui che a un certo punto Sorokin diventa Delvey: suona più chic.
Chi è davvero Anna?
Anna Delvey ha la stoffa della ragazza ricca, dice chi l’ha conosciuta in quegli anni. Porta in giro una faccia normale – «basic» è l’insulto peggiore che ti possa capitare, in quel mondo lì – come fosse una qualità esclusiva. Quando qualcuno le fa un complimento di stile, risponde solo «Balenciaga» oppure «Alaïa»: lusso ostentato come ovvietà. Ma ha davvero così tanti abiti firmati? È difficile da dire, veste sempre di nero. E non si sa bene neanche a che titolo arrivi a New York, nell’estate del 2013.
Certo è che decide di rimanere, approfittando dell’ospitalità di amici altolocati e sfruttando le manie di grandezza di un fidanzato meno sfacciato e parimenti ambizioso: un autoproclamato guru del progresso – «Il futurista», si fa chiamare – impegnato a raccogliere finanziamenti per una rivoluzionaria app di condivisione e archiviazione di sogni (giuro). Solo che i soldi a un certo punto finiscono – càpita, quando ci si improvvisa jetsetter – e lui trova riparo alle dipendenze di uno sceicco.
Anna Delvey ha costruito un castello di bugie con raffinata competenza. Ma il suo avvocato sostiene che se ci siamo fatti imbrogliare la COLPA è anche un po’ nostra.
Anna, invece, prende la residenza all’11 Howard, un boutique hotel a Soho che diventa il suo quartier generale. Parla inglese con un forte accento europeo – ancorché di provenienza indecifrabile – ma è fluente nell’unico linguaggio che a New York non consente equivoci: quello dei soldi. Conosce tutti. Racconta di essere la figlia – femmina, pertanto negletta – di un diplomatico russo (o forse era un petroliere, comunque fantastiliardario) nonché titolare di un fondo fiduciario che verrà svincolato allo scoccare dei suoi 26 anni. Non è che nel frattempo a pagare i conti può pensare qualcun altro?
Perché tutti le credono
Tutti le credono. Anche perché lei è una tipa pragmatica – all’uopo sostituisce al biondo svampito un piglio da donna d’affari – e con quei soldi mica intende fare la vita delle Kardashian, per carità. Lei vuole condividere i suoi privilegi, restituire alla società, creare la Anna Delvey Foundation, nientemeno: uno spazio che sia galleria d’arte, club mondano, ristorante stellato, albergo esclusivo, laboratorio creativo. Su 6 piani, a Park Avenue. Per questo ha bisogno di un cospicuo finanziamento, e di qualcuno che garantisca per lei. Al progetto collaborano Gabriel Calatrava (il figlio di Santiago, l’archistar) e André Balazs (il proprietario dello Chateau Marmont di Los Angeles). Un incredibile castello di carte – e prestiti, bugie, assegni falsi, bonifici inesistenti – che crolla a un passo dalla realizzazione.
L’arresto e la condanna
Anna Sorokin (ma lei preferisce ancora farsi chiamare Delvey) viene arrestata nell’ottobre del 2017, e in tribunale il suo avvocato sostiene che se ci siamo fatti imbrogliare la colpa è anche un po’ nostra: in una società che si basa solo sull’apparenza, Anna ha saputo inventarsi con competenza raffinata. Per il processo ha preteso una stylist, e che qualcuno si degnasse di stirarle i tubini Miu Miu.
È stata condannata per estorsione, rilasciata lo scorso febbraio, poi presa in custodia dal dipartimento d’immigrazione col rischio di essere deportata (e chissà come andrà a finire). Pentita, no: quello mai. Certo le dispiace per chi ne ha sofferto, ma lei al suo sogno credeva davvero. Non le interessa il denaro: voleva la fama, il successo, il potere di cambiare le cose. Con i soldi di Netflix ha saldato i debiti, ora vuole scrivere un libro, e rilascia interviste ogni volta che può. In quella al Times di Londra, la giornalista le ha chiesto se non la disturbi essere famosa come truffatrice. «Poteva andare peggio» ha risposto. Ha solo 31 anni, e tutt’un mondo di creduloni da conquistare un’altra volta.