Oggi è la giornata mondiale del libro e del diritto d’autore.
L’Associazione Italiana Editori ha organizzato una manifestazione nazionale che si chiama #ioleggoperché: lo scopo è spiegare a chi non legge perché invece leggere è molto bello. Annarita Briganti lo racconta in questo post.
Io però voglio mettermi nei panni di chi non legge. Perché si parla sempre di quelli che leggono, che sono pochissimi e che stanno scomparendo come i panda, ma nessuno parla di quelli che non leggono – che invece stanno proliferando come conigli – e soprattutto del perché non leggono.
Ebbene, lo confesso, io non leggevo. E sono andato a ricordarmi i motivi per cui non leggevo.
Il motivo principale per cui non leggevo è che i libri si trovavano in libreria, oppure in biblioteca – che era pure peggio.
Vedevo la libreria come un posto di cui aver paura, perché da un momento all’altro il libraio poteva chiedermi di che cosa avessi bisogno, ovvero che libro volessi comprare. Ma io non sapevo assolutamente che libro volessi comprare. A dire il vero non sapevo nemmeno se volessi comprare un libro. Entravo perché ero incuriosito e volevo vedere se mi sarei incuriosito abbastanza da comprarne uno – visto che c’era un sacco di gente che diceva che ce n’erano di bellissimi, di più belli persino dei Topolini che compravo in edicola (l’edicola, quella sì, era tutta un’altra storia).
Il fatto che il libraio mi chiedesse che libro volessi comprare e io non sapessi cosa rispondere mi faceva sentire impreparato come a un’interrogazione e questa cosa mi faceva vergognare tantissimo, perché denunciava apertamente la mia ignoranza. A casa mia non c’era tanto l’abitudine di leggere.
Quindi avevo finito per entrare in libreria solo se ero proprio obbligato, tipo perché mi avevano detto di farlo a scuola. Ma in quei casi era tipo un blitz: entravo, salutavo a voce bassissima e, con un bigliettino ben stretto in mano, così che fossi sicuro di non sbagliare il nome dell’autore, del libro e dell’editore – questo sconosciuto che non avevo ben capito che cosa facesse nella vita – dicevo tutto al libraio e aspettavo, tremando e sperando che non ci fosse qualche intoppo, che invece puntualmente c’era.
E cioè il libraio mi diceva che quel libro che volevo io non c’era e che quindi bisognava ordinarlo – e fin qui era abbastanza facile, a parte l’angoscia di dover tornare in libreria – oppure che era disponibile, ma “per un altro editore”.
Quando mi diceva così, io diventavo subito rosso e incominciavo a balbettare: non sapendo bene chi fosse questo benedetto editore e che cosa facesse esattamente nella vita, temevo che prendere lo stesso libro da un altro editore fosse come quando i miei erano costretti a prendere la carne da un macellaio diverso da quello abituale e, anche se era lo stesso taglio, non gli piaceva: era troppo grassa o troppo grossa.
Quindi dicevo al libraio «No, grazie. Mi serviva proprio di quell’editore», ma allora il libraio insisteva, diceva addirittura «questa edizione costa di meno». E allora lì mi convincevo che – assolutamente – mi stava fregando, che era come la carne troppo grossa del macellaio non abituale, però poi alla fine dicevo «va bene», anche perché non è che ci fossero altre librerie in città, o forse c’erano ma mi facevano sentire ancora più a disagio di questa.
Andare in libreria per me era come, da bambino, dover passare da una stanza buia alla fine della quale avrei forse trovato il mio giocattolo.
Ero felice di andare in libreria solo se accompagnato da un amico che ne era assiduo frequentatore e a cui – quindi – si rivolgeva il libraio, lasciando me in pace. Ecco, in quel momento mi sentivo libero e non sotto giudizio. In quel momento potevo girare per la libreria indisturbato, guardare le copertine dei libri, lasciarmi incuriosire. E se il libraio mi chiedeva lo stesso: «Di cosa hai bisogno?», io potevo rispondere «sto con lui, chiedi a lui».
Ho iniziato a frequentare le librerie quando mi sono trasferito in una città dove c’era una Feltrinelli, che è un po’ come un supermercato: tu entri e nessuno ti considera. Puoi gironzolare fra gli scaffali quanto vuoi e se trovi qualcosa che ti interessa la prendi, sennò no, ed esci, come se non fossi mai entrato. Tra l’altro, a nessuno gli frega se compri l’autobiografia di Nino D’Angelo o I fratelli Karamazov.
Quando quella libreria di cui avevo terrore ha chiuso – lo confesso, anche se non si dovrebbe dire nella giornata mondiale del libro – io ho gioito. E sono andato a comprare tutti i libri che svendevano a metà prezzo, ci sono andato proprio con lo spirito dello sciacallo sulla carcassa di un animale morente, anche se quel poverino del libraio non aveva nessuna colpa e, ripensandoci oggi, in fondo sono anche un po’ dispiaciuto che quella libreria sia chiusa – ma non troppo.
Penso che la gente non legga per tanti, tantissimi motivi – perché dice di non aver tempo, ma per guardare la televisione e le serie televisive sì, perché i libri costano troppo, sarà anche vero ma ci sono un sacco di libri che costano poco e ci sono le biblioteche, che però ti dovrebbero far sentire un po’ meno un ladro, un po’ più il benvenuto, perché leggere è difficile se non ci sei abituato, ma, appunto è un’abitudine – ma il vero motivo per cui non legge è perché non si sente a proprio agio fra i libri e i lettori, come invece si sente a proprio agio a guardare la televisione, a entrare in un negozio di dischi (quando c’erano) o ad andare ai cinema (finché ci saranno).
Perché tutte le volte che si ripete che più della metà degli italiani non legge nemmeno un libro all’anno, chi non legge si sente come un ladro e sente che deve leggere non perché magari gli può piacere o perché ne potrà trarre qualche vantaggio, ma perché si deve fare e allora è sicuro che non lo farà, come quando ti dicono che non devi fumare perché fa male e perciò tu, che ti senti in difetto, la prima cosa che fai per gestire il disagio è quello che hai sempre fatto, cioè accenderti una sigaretta e fumare. Così i non lettori continueranno a non leggere. Anche perché – come cantava Rino Gaetano – «mio fratello è figlio unico perché è convinto che anche chi non legge Freud può vivere cent’anni».
C’è un film che ha un po’ segnato la mia adolescenza, Ovosodo di Paolo Virzì, e dentro quel film c’è una scena che mi piace molto e che c’entra con questo discorso dei libri e dei lettori. È la scena in cui Piero (Edoardo Gabriellini), dopo aver studiato, finisce a lavorare in fabbrica e, nella pausa pranzo – ma forse non era la pausa pranzo, era proprio mentre lavoravano, comunque, in un momento in fabbrica – racconta ai suoi colleghi un romanzo che sta leggendo. Glielo racconta a voce, con il loro linguaggio, puntando sulle passioni che anche loro provano, infatti c’è uno degli operai che si appassiona così tanto che, ogni due o tre frasi, chiede «ma trombano?» e invece non trombano mai.
Oggi, andando a cercare questa scena su internet, mi sono imbattuto in un blog del 2011 di una ragazza che, dopo aver visto il film, dice di essersi andata a cercare il libro di cui Gabriellini racconta – è La ragazza di Bube di Cassola. È venuta voglia anche a me di leggere questo libro perché, dopo tutti questi anni, voglio proprio sapere se alla fine quei due, quei due di cui racconta Gabriellini nel film, alla fine trombano oppure no.
È questo il motivo per cui sono passato da non leggere a leggere, perché ho superato la paura delle librerie, anche di quelle in cui ti chiedono se hai bisogno di qualcosa, e il motivo è perché voglio sapere se alla fine trombano o non trombano, se vivono o muoiono, se si sposano o non si sposano o fanno dei figli e come vengono su, se l’assassino è quello con la barba o quella con il tacco 12, in sostanza voglio risposte oppure altri dubbi e altre domande che spostano un po’ più in là il mio orizzonte di pensiero alla serie infinita di domande che ci facciamo tutti anche quando non leggiamo i libri ma semplicemente viviamo, cioè voglio sapere se vivremo o moriremo, se ci si può fidare di più di quelli con la barba o di quelle con il tacco 12, oppure se abbiamo fatto la scelta giusta, e anche se abbiamo fatto la scelta sbagliata sentirci compresi e consolati da uno che non esiste e che però ha sbagliato come noi e prova le stesse cose che proviamo noi, ma dentro a un libro.