Se avete letto La casa degli spiriti (e se non lo avete fatto vi consigliamo di “recuperarlo”), avete già compiuto il primo passo nel mondo di Isabel Allende. Nella storia del suo Paese, il Cile. Nelle sue donne forti, indipendenti e coraggiose. Violeta, la protagonista dell’omonimo romanzo appena uscito per Feltrinelli, l’ultimo dei 28 pubblicati dall’autrice 79enne, si aggiunge ora a quel mondo. È una donna centenaria che attraversa il XX secolo e scrive al nipote Camilo per lasciargli una testimonianza. Perché «la mia vita merita di essere raccontata» dice. E, nell’introduzione alla sua storia, aggiunge: «Sei il depositario delle mie lettere, su cui è riportata la mia intera esistenza… Ma devi tener fede alla promessa che quando morirò le brucerai, perché sono sentimentali e spesso astiose».
Violeta, tra romanzo e memoir
I romanzi di Isabel Allende hanno spesso la forma e il sapore del memoir, sono intrecci di vite fittizie che si fondono con quelle reali e con i ricordi della stessa scrittrice. In Violeta c’è la madre, viva e presente. O almeno lo è il suo spirito. «Violeta è la storia di una donna che ha vissuto negli stessi anni in cui ha vissuto mia madre» mi racconta l’autrice dalla sua casa in California. «Anche lei, Francisca Llona Barros (l’amata mamma Panchita così ben raccontata in Donne dell’anima mia, ndr), era nata nel 1920, in una società e in un luogo molto simili. Ma il Paese in cui cresce Violeta non è mai menzionato nel mio libro. Possiamo presumere che sia l’Argentina, l’Uruguay, il Cile o il Perù. Non gli ho dato una connotazione perché volevo la libertà di muovermi e spostarmi nel tempo come volevo».
Ma che donna è Violeta? «Una donna indipendente, molto avanti rispetto ai tempi in cui ha vissuto. A differenza di mia madre, per esempio, che era una personalità forte ma non era in grado di mantenersi da sola, Violeta ci riesce, guadagna, ha una libertà incredibile. Inoltre è stata testimone delle cose più interessanti del secolo in cui è vissuta, ha partecipato al mondo. E questo ha consentito a me, come scrittrice, di descrivere il tempo, la storia. Per me la cosa più interessante di questo libro sono gli avvenimenti storici che determinano la vita di Violeta».
La storia si ripete
Il romanzo inizia con l’influenza spagnola e si chiude con il Covid. «L’idea è che la storia tende a ripetersi, e a volte si ripete in circostanze molto simili. Ma pensavo anche che fosse poetico raccontare il secolo fra le due pandemie, perché mia madre è nata nel 1920 e se fosse vissuta più a lungo – è morta nel 2018 a 98 anni – avrebbe affrontato il Covid. È un’analogia interessante».
La scrittura che unisce
E non è la sola: Violeta scrive a Camilo, lo abbiamo visto, e, mi rivela Isabel Allende, lei e sua madre si sono scambiate lettere per tutta la vita, quando erano separate, Isabel negli Stati Uniti, la mamma in Cile. «Scrivere a mia madre tutti i giorni non solo mi teneva unita a lei ma, attraverso quel forte legame emotivo, mi aiutava anche a fare il resoconto della giornata. Che in questo modo era “salvata”. Quando mia madre si stava avvicinando alla fine mi ha restituito le lettere. Così ho potuto riunirle tutte: quelle che io avevo scritto a lei e quelle che lei aveva scritto a me. Le ho messe in diverse scatole, divise per anni e decadi. Mio figlio poi le ha digitalizzate per preservarle dal tempo e dall’umidità, e ha calcolato che, tra le mie e quelle di mia madre, sono 24.000. Una vita intera. Quando poi è arrivata la posta elettronica, a volte ci scrivevamo due email al giorno, ogni cosa che ci veniva in mente».
Non posso fare a meno di essere curiosa: che tipo di cose, fatti o pensieri vi scrivevate? «Io raccontavo tutto quello che facevo durante il giorno, cosa avevo scritto, cosa avevo sentito, storie di altre persone, a volte i miei sogni. Avevo una vita pienissima: viaggiavo, parlavo in pubblico. Inoltre per un periodo ho avuto un rapporto molto conflittuale col mio secondo marito, che aveva 3 figli tossicodipendenti (William C. Gordon di cui narra in Il piano infinito, ndr). Insomma, c’era del movimento interessante da raccontare. Mia mamma mi rispondeva dalla sua casa in Cile. Da anziana mi scriveva delle serie tv che stava guardando e di quello che secondo lei sarebbe dovuto succedere tra i personaggi. Mi raccontava del suo passato, dei suoi ricordi, della gente che le stava intorno. Ero sempre informata su quello che succedeva nel paese».
«Per tutta la vita sono stata una sfollata. Prima il Perù dove sono nata, poi il Cile dove sono cresciuta, poi in giro per il mondo col secondo marito di mia madre. E ancora la FUGA negli Stati Uniti come rifugiata politica dopo il golpe di Pinochet. A che luogo APPARTENGO? Credo di appartenere a un luogo inventato: il Cile della mia GIOVINEZZA, un posto che non esiste più».
Ride Isabel Allende, mentre ripensa a quegli episodi che non diventeranno mai parte di un romanzo. «Molto spesso sia lei sia io scrivevamo cose orribili di altre persone, facevamo gossip su suo marito e sul mio. Nessun altro potrebbe mai leggere quello che ci confidavamo. Per questo ho promesso a mia madre che se fosse morta prima di me avrei distrutto le lettere (la stessa promessa che Violeta pretende da suo nipote Camilo nel romanzo, ndr), in modo che lei potesse avere la libertà di parlare di tutto quello che voleva. Però poi non sono riuscita a farlo».
Legami e radici
Un legame più forte della distanza e del passare del tempo. «L’amore di mia madre mi ha dato fiducia in me stessa. Era il mio rifugio. Sono cresciuta con l’idea di poter fare ogni cosa, prendermi ogni rischio, ma anche con la certezza che se avessi avuto bisogno avrei potuto sempre tornare da lei».
«L’amore di mia madre mi ha dato fiducia in me stessa. Sono cresciuta con l’idea di poter fare ogni cosa, correre ogni RISCHIO. Perché sapevo che, se avessi avuto bisogno, lei sarebbe stata SEMPRE LÌ, ad accogliermi».
Le radici sono importanti per Isabel Allende: per tutta la vita, mi dice, è stata una sfollata. Prima il Perù dove è nata, poi il Cile dove è cresciuta, poi in giro per il mondo col secondo marito della madre, diplomatico, poi di nuovo in Cile col primo marito Michael Frías e i due figli, Paula e Nicolás. E ancora, la fuga negli Stati Uniti come rifugiata politica dopo il golpe di Pinochet. «A che posto appartengo?» si chiede oggi. «Credo di appartenere a un posto inventato: il Cile della mia giovinezza, un Cile che non esiste più. Quando i miei nipoti erano piccoli mi dicevano che avevo un villaggio nella mia testa. E che io vivevo in quel villaggio. Ed è vero. Le mie radici sono nelle persone che amo: mio figlio, mia cognata, mio marito, i miei nipoti. E poi c’è la California. I miei libri e la gioia di scriverli».