Il dialetto napoletano con l’accento americano arriva inaspettato, ed è decisamente buffo. James Franco sta raccontando la sua esperienza nella città partenopea, dov’è rimasto a lungo per girare il suo nuovo film Hey Joe, quando gli viene in mente un cibo di strada che gli hanno fatto assaggiare: ’o pere e ’o musso, che lui pronuncia che lui pronuncia peremus, ovvero il piede del maiale e il muso del vitello conditi con sale e limone. «Ogni sera qualcuno mi invitava a cena o mi accompagnava per la città: ora ho molti amici a Napoli» dice il 46enne californiano, interprete di circa 140 film e regista di oltre 30, candidato all’Oscar per 127 ore di Danny di Danny Boyle (2010) e premiato con il Golden Globe per The Disaster Artist (2018) di cui è anche autore.
James Franco: un tipo poliedrico
James Franco, che ha altri 7 titoli in arrivo tra produzioni sue e altrui, è sempre stato vulcanico: dipinge, scrive racconti, ha pure una linea di abbigliamento streetwear, Paly Hollywood, di cui disegna le stampe. Sul grande schermo non lo si vedeva da quattro anni per via di una causa legale: è stato accusato di molestie sessuali da alcune studentesse dei suoi corsi di recitazione.
Nel 2021 ha ammesso di aver fatto sesso con qualche allieva, ma senza pianificarlo, e di aver capito che è stato un errore: «Sentirsi dire che ti comporti male è doloroso, ma anche necessario a correggerti. Questa pausa mi è servita a lavorare su me stesso. Mi ha aiutato anche a essere meno compulsivo nel lavoro». In Hey Joe, il suo primo film italiano, ora al cinema per la regia di Claudio Giovannesi, Franco interpreta un veterano dell’esercito statunitense, Dean Barry, che aveva combattuto la Seconda guerra mondiale in Italia ed era tornato in patria senza sapere di aver messo incinta una ragazza. Solo dopo 25 anni e altre due guerre, in Corea e in Vietnam, viene a sapere dell’esistenza del figlio e ritorna a Napoli per cercarlo.
James Franco torna al cinema con Hey Joe
È la prima volta, nella sua lunga carriera, che viene diretto da un regista italiano. Com’è stato coinvolto nel progetto?
«Questo ruolo è stato un vero regalo. Conoscevo lo sceneggiatore, Maurizio Braucci, e credo sia stato lui a parlare di me a Claudio Giovannesi. Mi piacciono le storie di redenzione, perché ci credo fortemente: penso che, per quanto si possa cadere nella disperazione, esista sempre una possibilità di rialzarsi. Il mio personaggio, Dean, si trova in un momento difficile quando decide di intraprendere il viaggio. Ha combattuto tre guerre, ha problemi di dipendenza dall’alcol, pensa che la sua vita non abbia un senso. Venire a sapere di essere padre gli offre uno spiraglio, e anche l’opportunità di rimediare alla sua assenza con il figlio. Non sa dove lo porterà quel viaggio, ma riesce a muoversi in modo positivo, resta aperto a qualsiasi sorpresa. In qualche modo mi ha fatto pensare al percorso di noi tutti».
Anche al suo?
«Da giovane pensi di sapere quello che desideri, magari hai un sogno e a volte riesci a realizzarlo, com’è stato per me che ho fatto l’attore e sono grato alla vita per questo. Però non è la soluzione a tutto. Il tempo e la maturità portano con sé altre esigenze, più profonde. E capisci che quel sogno non basta, inizi a cercare altro».
Hey Joe, una storia di paternità ritrovata
Hey Joe è la storia di una paternità ritrovata. Dove ha tratto ispirazione?
«Non ho figli, anche se spero fortemente di averne in futuro (ha una relazione con l’attrice e regista Izabel Pakzad, ndr). In compenso ho fatto esperienza come tutore di ragazzi in difficoltà e le relazioni che ho creato con alcuni di loro sono simili a quella del protagonista, che non solo si scopre padre ma ritrova un figlio educato alla malavita, che è stato cresciuto da un boss del contrabbando e fa lo spacciatore. La sceneggiatura è basata sulla leggenda metropolitana raccontata a Napoli di un veterano tornato dall’America anni dopo il secondo conflitto mondiale per cercare il figlio concepito all’epoca. Mi piace la combinazione di storia collettiva e personale, il racconto delle conseguenze di ogni guerra nelle vite delle persone».
Secondo il regista Claudio Giovannesi, lei è bravissimo a mostrare il lato fragile del suo personaggio. «Stavolta ho pensato, paradossalmente, ai film di Steve McQueen. Questo veterano è abituato a soffocare le emozioni, ma nella nuova situazione si ritrova spiazzato. Per creare un contatto con il figlio deve uscire dalla sua comfort zone e accettare di mostrarsi vulnerabile».
James Franco: amo l’Italia e Napoli
Lei è stato uno dei primi, negli Stati Uniti, ad aver amato L’amica geniale di Elena Ferrante. Con quali aspettative si è immerso nella Napoli di oggi durante le riprese di Hey Joe?
«Ho amato la Ferrante e non solo. Amo il cinema di Paolo Sorrentino e Matteo Garrone, i film italiani di ieri e di oggi. Ho visto Paisà di Rossellini e letto Napoli ’44, le memorie dell’ufficiale Norman Lewis che mi hanno dato un quadro della città all’epoca anche se il mio personaggio torna negli anni ’70 e la trova cambiata. Ma soprattutto mi è piaciuto l’approccio neorealista del regista nel fare il casting: se in una scena c’è un panettiere lui vuole un panettiere vero, anche di contrabbandieri ne ha trovati di veri. A Napoli ho avuto un’accoglienza calorosa e ora sto cercando di imparare meglio l’italiano».
In Hey Joe lo parla: ha iniziato a studiarlo prima delle riprese?
«Sì, è la prima volta che recito in una lingua diversa dalla mia, ma sono abbastanza credibile visto che interpreto un americano in Italia».
Potrebbe girare un film da regista anche qui?
«Abbiamo fatto alcune riprese di Hey Joe in Puglia e in Calabria, mentre per la mia linea di moda vado spesso a Milano. Mi piace lavorare in Italia, l’energia creativa del vostro Paese, l’atmosfera che i registi sanno creare sul set. Quindi sì, potrei girare qui uno dei miei prossimi film da regista».