Chi era Janis Joplin
Quando sei una ragazzina esclusa e derisa dai coetanei, e hai la ventura di nascere e crescere in una cittadina del Sud degli States, popolata da poche anime annoiate, l’unico scopo che si profila davanti è quello di attendere l’età giusta per la fuga, e bruciare le tappe verso l’età adulta. Se poi Madre Natura ti ha dotato di un bene formidabile come una voce ancora da scoprire, ma nel frattempo non piaci né a te stessa né agli altri, la vita sembrerà ancora più dura, da restituire con tutti i tormenti e i dolori del caso appena saranno gettati alle spalle i vincoli e gli ancoraggi da una famiglia di stretta osservanza religiosa.
Janis Joplin, la più formidabile espressione del canto bianco – dietro un perfetto travestimento da nera – nasce a Port Arthur, in Texas, nel gennaio 1943, sotto il segno del Capricorno: ha il blues dentro, anche ben prima di accorgersene e di urlarlo, piangerlo dentro un microfono. E saranno gli avventori dei club di Austin, centro universitario a forte trazione musicale, i primi a prendere atto di quelle doti espressive ruvide, aspre, ineducate, sporche di rabbia e di frustrazione, che caratterizzeranno la breve, folgorante carriera di un’altra artista volata via troppo presto. In 4 anni e 4 dischi, la stessa misura di Jimi Hendrix, Janis Joplin riesce a condensare presso le platee dell’epoca una carica estetica e di contenuto più unica che rara, restando ben radicata nell’immaginario collettivo delle culture rock fino ai giorni nostri.
Janis Joplin era un simbolo del movimento psichedelico californiano
Quanto giunge a noi, a 50 anni tondi dalla morte – il 4 ottobre 1970, fulminata da un cocktail di eroina, morfina e whisky, nella stanza 205 del Landmark Motor Hotel di Hollywood – sono alcune sublimi interpretazioni di blues moderno, dove straziare mirabilmente standard come Summertime (sì, quella di George Gershwin, dall’album Porgy and Bess), Ball and Chain o Me and Bobby McGee, o tracce minori, laterali, illuminate dalle sue esecuzioni, piegate da un’anima ostaggio di dipendenze, alcolismo e una somma di travagli autodistruttivi.
Janis Joplin resta – insieme a un pugno di brani mai moltiplicatisi con la progressione forsennata delle pubblicazioni postume di Jimi Hendrix, scomparso appena 2 settimane prima di lei – uno degli esempi più classici, e devastati, della controcultura dei Sixties: un simbolo del movimento psichedelico californiano, frutto di quella San Francisco dove ufficialmente debutterà a capo dei Big Brother and the Holding Company, il gruppo più affidabile con cui lavorò, nel giugno 1966.
Punta di un iceberg disordinato e affascinante di rock, psichedelia e disperazioni quotidiane, Janis Joplin ha rappresentato lungo poche decine di canzoni un universo palpitante, con il battistrada di una vocalità duttile e superba, straordinaria negli strappi, manovrata come uno strumento accordato su un sound acido, a seconda delle esigenze e della platea fronteggiata.
Immortalata dalle cineprese in alcuni festival, da Monterey Pop a Woodstock, che ne hanno replicato il messaggio all’infinito e che hanno contribuito a definirne il carisma, anche grazie al look, rimasto un cult transgenerazionale: da consultare nelle performance sul palco, ma anche nella sua ultima apparizione televisiva, al Dick Cavett Show (ora su YouTube) il 3 agosto 1970, dove la ritroviamo sorridente, lievemente fuori giri, una gran cascata di capelli colorati di rosso, verde, blu, generoso assortimento di anelli, collane, bracciali e un abito ampio a celare i chili di troppo che la assillavano fin dall’adolescenza. Capace, nel lascito artistico, di mantenere una dimensione vintage e attualissima, con alcune registrazioni di pura sofferenza e passione – si ascoltino tracce come I need a man to love, Piece of my heart o Somebody to love, dove i titoli non sono casuali – preferibilmente disseminate nella produzione dal vivo, quando la voce si inerpica e vola libera, senza rete.
Voleva essere amata, desiderata, ascoltata
Originale, unica, pur con debiti di riconoscenza verso altre figure femminili che aveva ascoltato e amato alla perdizione (più Bessie Smith, di cui acquista la lapide in segno di deferenza, che Aretha Franklin, spesso evocate nelle interviste), Janis Joplin verrà anche considerata un esempio protofemminista: libertaria, ribelle al naturale, un tramite di gioia e rivoluzione che si manifesta anche nel privato, una catena di amori voraci, sbagliati, uomini e donne incontrati e presto abbandonati.
Il suo anticonformismo nell’arte e nella vita quotidiana, la spirale di partner musicali cambiati in continuazione sottolineano le continue collisioni tra Janis e l’ambiente cui pure orgogliosamente apparteneva: un ulteriore aspetto di vicinanza ad Amy Winehouse, altro angelo dannato bruciatosi a gran velocità, esponente anche lei del “Club 27”, artisti illustri che non hanno varcato quel confine anagrafico: Jimi Hendrix, Jim Morrison, Brian Jones, Kurt Cobain, solo per citare i più celebri.
Per saperne di più su Janis Joplin
Per saperne di più di quella ragazza difficile e stremata dall’esistenza ci sono diversi libri, come il recentissimo Janis – La biografia definitiva di Holly George Warren, e poi qualche documentario: il più semplice da recuperare è Janis della regista Amy Berg (in Italia con la voce narrante di Gianna Nannini). Qui si fotografano con disarmante realismo le vette e gli abissi di una creatura fuori dagli schemi, che non avrebbe voluto commemorazioni, ma soltanto essere amata, desiderata e ascoltata.
La famiglia di Janis Joplin
La sua prima band