Occhi di ghiaccio, barba curata, espressione sognante, Jared Leto non è solo un sex symbol: è uno dei divi più stimati e imprevedibili di Hollywood. Due anni fa ha vinto l’Oscar come migliore attore non protagonista nei panni di una transgender in Dallas Buyers Club e ora interpreta Joker in Suicide Squad. «Un ruolo che mi ha rubato l’anima, mi ha messo ko» rivela. Ed è facile credergli, perché il personaggio con il ghigno da clown creato nel 1940 dalla DC Comics è tra i più oscuri nella storia dei fumetti.
Jared, 44 anni, arriva all’appuntamento indossando una T-shirt con rombi, ruote e pianeti: sembra che abbia appena finito di suonare con la sua band rock, i Thirty Seconds To Mars. Ci incontriamo alla Moynihan station, un ufficio postale in disuso di New York: luogo ideale per presentare un film che parla di un gruppo di supercriminali ingaggiati dal governo americano, in cambio della grazia, per portare a termine operazioni clandestine e salvare il mondo da una minaccia terroristica. Accanto a Leto recitano Will Smith nella parte del cecchino Deadshot e Margot Robbie in quella della psichiatra folle Harley Quinn.
È stato difficile trasformarti in Joker? Mi sono immaginato i suoi denti borchiati e il petto tatuato come se fossero parte del mio Dna. In fondo, cos’è il personaggio di Joker se non una grande allucinazione? Non puoi rinchiuderlo in un copione. Ne ho interpretati di matti durante la mia carriera, ma lui li batte tutti: è il più anarchico. Che cosa ci accomuna? Il pensiero libero. Certo, io sono meno narcisista e decisamente meno pazzo. Ma, come lui, amo portare scompiglio.
Per esempio, quello che hai creato sul set… Ti riferisci ai doni che ho fatto ai colleghi? Anche questo rientra nel mio metodo di lavoro. Mi sono rifiutato di fare amicizia con gli altri attori prima delle riprese e, a un certo punto, ho spedito a tutti una serie di “regali” degni di Joker: topi vivi, serpenti, profilattici… E mini cupcakes.
I dolcetti? Sì. Le cupcakes rappresentavano il “lato buono” di Joker, che lui utilizza per manipolare gli altri. Anche il look di Joker è ambivalente. Metà urbano, metà da manicomio. Di tutti i suoi vestiti mi porterei a casa lo smoking: elegantissimo.
Anche il look di Joker è ambivalente. Metà urbano, metà da manicomio. Di tutti i suoi vestiti mi porterei a casa lo smoking: elegantissimo.
È però un personaggio dai tratti violenti. Non hai avuto ripensamenti nell’interpretarlo? No. Vedere la violenza in un film ti strappa via dalla comfort zone, il contesto in cui ti senti sicuro, e ti apre gli occhi su ciò che succede nel mondo fuori. Ne sono pieni i giornali, i tg, il web: mi è bastato guardarli per entrare nel personaggio.
Prima di te, l’ultimo a indossare la maschera di Joker è stato Heath Ledger ne Il cavaliere oscuro: non hai paura del confronto? La performance di Heath resterà leggendaria: ha meritato l’Oscar postumo. E lui era una bellissima persona, mi ha trasmesso il senso del coraggio.
Tra Joker e la psichiatra Harley Quinn è vero amore? È un’infatuazione, con un pizzico di complesso
di Edipo.
Sei cresciuto con una mamma artista. Che cosa ti ha insegnato? Il valore della sfida. Era solo un’adolescente quando mi ha messo al mondo a Bossier City, in Louisiana. Abbiamo vissuto dappertutto, persino a Haiti. Un po’ per spirito bohémien, un po’ perché non avevamo molti soldi. Sin dall’infanzia mia madre ha stimolato in me e mio fratello Shannon la creatività. Spesso giocavamo a inventare degli strumenti e poi improvvisavamo concerti.
Per questo nella tua carriera hai privilegiato ruoli estremi? Sì, la transgender Rayon in Dallas Buyers Club è solo un esempio. Nel 2000, prima di interpretare Harry Goldfarb in Requiem for a Dream ho trascorso settimane intere con i tossici di New York, per prepararmi alle riprese.
Lo faresti ancora? No. E nemmeno metterei su 30 chili di grasso come ho fatto nel 2007 per Chapter 27. Sono prove che ho dimostrato di saper superare, adesso rincorro altro.
Cosa rincorri? Per i prossimi 10 anni voglio continuare a dirigere videoclip, girare documentari, comporre musica, proteggere l’ambiente, scattare fotografie, arrampicarmi. Farò di tutto pur di non sentirmi vecchio.
In questo lo sport ti aiuta? Durante un’arrampicata bado all’essenziale, come se fossi un uomo primitivo. È un momento liberatorio. E poi devo recuperare: a scuola ho perso troppo tempo con le droghe, oggi lo sport è una ragione di vita.
È vero che hai acquistato una vecchia base dell’aviazione americana e l’hai trasformata in una casa? Sì, per me è una specie di parco giochi. Pensa che ho anche una torre di controllo. Certo, non è ancora confortevole, dammi tempo. Se però mi verrai a trovare, preparati: non sarà certo come andare a fare visita alla nonna.