«Preferisco fare una fotografia piuttosto che esserne una» diceva Lee Miller. Ci riuscì. Celebre modella nella New York degli anni ’20, si trasferì a Parigi e diventò un’affermata fotografa di moda e di arte. Ma non le bastava: voleva conoscere il mondo, capirlo. Durante la Seconda guerra mondiale partì come fotoreporter insieme alle truppe alleate, scattando alcune delle immagini più emblematiche del confitto, dalla liberazione di Parigi ai campi di concentramento di Buchenwald e Dachau.
«Preferisco fare una fotografa piuttosto che esserne una» ripete Kate Winslet mentre racconta del film che ha voluto con tutta se stessa, al punto da esserne produttrice oltre che protagonista: il biopic Lee, al cinema dal 13 marzo.
Vieni con Donna Moderna a vedere Lee
Vieni con Donna Moderna a vedere Lee nel primo weekend di programmazione del film, dal 13 al 16 marzo inclusi. Puoi scegliere tra le sale dei circuiti The Space Cinema e UCI Cinemas che aderiscono all’iniziativa. Ci sono a disposizione 600 biglietti. Clicca sul link di UCI CINEMAS o THE SPACE CINEMA, scegli sala, data e orario di programmazione, registrati al sito e prenota i biglietti (max 2 per prenotazione). Al momento della prenotazione devi inserire nella casella apposita il codice sconto che trovi di seguito:
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La promozione è valida solo dal 13 al 16 marzo inclusi, FINO AD ESAURIMENTO POSTI, e solo nelle sale dei circuiti The Space Cinema e UCI Cinemas che aderiscono all’iniziativa. Clicca qui per leggere i termini e le condizioni dell’operazione.
Kate Winslet interpreta Lee Miller
Il film, a partire dal dialogo immaginario tra un’ormai anziana Miller e suo figlio Antony, ripercorre la sua decisione di fare la corrispondente di guerra, la vita al fronte, l’orrore nei lager, quel carico di dolore che non l’avrebbe più lasciata. «È stato il ruolo più traumatico che abbia interpretato» rivela Kate Winslet. «Eppure in Lee c’erano un coraggio e una determinazione che non avevo mai trovato in nessun altro dei miei personaggi».

Intervista a Kate Winslet
Ha lavorato al progetto per 7 anni. Perché teneva tanto a realizzare un film su Lee Miller, poco nota alla maggior parte delle persone?
«La risposta sta proprio nella sua domanda: perché pochi sanno quanto sia stato fondamentale il suo lavoro di fotografa. Io stessa l’ho scoperto preparando il film: conoscevo le foto che aveva scattato durante la Seconda Guerra Mondiale, certo, ma è quando ho iniziato a scavare nella sua vita che ho capito che era famosa per le ragioni sbagliate. I più la descrivevano solo come “ex”: ex modella di Vogue, ex musa ed ex amante del pittore e fotografo Man Ray… Queste defnizioni sminuivano il suo talento e il suo coraggio. Ho sentito il bisogno di mostrare al mondo la vera Lee».
Quando Lee chiese di essere inviata come fotografa al seguito delle truppe britanniche nella Seconda guerra mondiale, non le fu permesso. Perché?
«Gli inglesi non consentivano alle fotoreporter di partire con i soldati. Così lei, che era americana, si rivolse all’esercito statunitense. E la spuntò. All’inizio, per British Vogue, ritraeva le donne che contribuivano alla causa: infermiere, operaie, telefoniste… Ma restando, diciamo così, in seconda linea. Lei però voleva a tutti i costi andare al fronte e insisté così tanto che alla fine ci riuscì. La ammiro, la ammirerò sempre perché ha vissuto con integrità, resilienza, coraggio. Era una donna che, già 80 anni fa, non voleva solo un posto al tavolo degli uomini, era determinata a sedersi a capotavola. In termini di messaggio globale sulla leadership femminile, è stata molto importante».
Fin dall’inizio del film, quando vive felicemente a Parigi con i suoi amici artisti e fa la fotografa di moda, Lee si dimostra una donna libera. Nella scena in cui conosce Roland Penrose, che poi sposerà, è seduta a tavola in topless…
«Ma quella non è una scena sexy, dimostra piuttosto quanto fosse padrona di sé e del suo corpo. Anche se non era più quello di una modella, si era ammorbidito. C’è un’altra sequenza in cui Lee è seduta su una panchina in bikini e si vede la pancia… Che poi è la mia. Tra una ripresa e l’altra, un membro della troupe si è avvicinato e mi detto: “Dovresti sedere più dritta”».
Il rapporto con il proprio corpo
E lei che ha fatto?
«Gli ho risposto: “Per non far vedere i rotolini? Neanche per sogno! È stato intenzionale, sai?”. Sia perché, come ho detto prima, Lee era a proprio agio con se stessa. Sia perché la mia pancia fa parte di me, di chi scelgo di essere. Non mi interessa apparire perfetta: c’è la mia vita sul mio viso e sul mio corpo, perché mai dovrei nasconderli?».
Fin dai tempi di Titanic ha subito molte pressioni per il suo aspetto fisico. Come le ha affrontate?
«Ricordo bene quel periodo. Dicevano che ero troppo grassa per meritarmi una storia d’amore con Leonardo Di Caprio. Io sapevo che tutto ciò era moralmente sbagliato ma, a 22 anni, cosa potevo fare? Mi sentivo impotente… Per fortuna non ho avuto un esaurimento nervoso. Non è stato facile, ma ho imparato a ignorare certe idiozie. Oggi non leggo nemmeno le recensioni, ciò che mi sta a cuore è fare un buon lavoro».
Ed è diventata una paladina della lotta al body shaming.
«Perdiamo così tanto tempo a criticarci, a inseguire modelli irraggiungibili, a essere come gli altri vorrebbero che fossimo. Da sempre. Non conosco una sola mia coetanea che sia cresciuta vedendo sua madre guardarsi allo specchio e dire: “Sono bella!”. Ma io credo che dovremmo essere libere di celebrare le nostre forme, senza essere giudicate. Seguo un’alimentazione sana, dovrei forse prendere Ozempic, come fanno tante negli Stati Uniti, per diventare scheletrica? Compirò 50 anni a ottobre: ho capito che vivisezionare ogni parte del tuo corpo per Hollywood è una gran perdita di tempo. E la vita è troppo breve per non godersela, facendosi condizionare da quello che dicono gli altri. Sono io a decidere».
Intervista a Kate Winslet: la carriera, tra passato e futuro
Prima ha detto che il ruolo di Lee Miller è stato il più traumatico della sua vita. Ma spesso ha interpretato donne complesse, tormentate. Una su tutte: la sorvegliante nei lager nazisti di The reader, per cui ha vinto l’Oscar come migliore attrice nel 2009. In che modo poi ci si separa da personaggi così?
«A dire il vero, penso di non essere ancora riuscita a scrollarmi di dosso Lee. A volte, quando vado a dormire, devo ripetermi: “Ok, stop!”. Del resto, ho passato 7 anni con lei».
Ha sempre sognato di fare l’attrice?
«Sì. Fin da bambina. Poi, a 19 anni, è arrivato il film di Peter Jackson Creature del cielo e mi ha cambiato la vita!».
Perché?
«Quando ho fatto il provino, non potevo crederci. Il mio personaggio era presente in ogni pagina della sceneggiatura. Ricordo di aver pensato: “Se ottenessi questo lavoro, allora sì che potrei definirmi un’attrice vera”. Grazie anche all’incoraggiamento di mio padre, mi sono convinta che avrei potuto farcela. E da allora ho sempre cercato di mantenere questa determinazione. Di ripetere a me stessa prima di ogni audizione: “È me che vogliono”».
Ora sta lavorando al suo primo film da regista, Goodbye June. Perché ha scelto di fare questo passo?
«Perché me lo ha chiesto mio figlio Joe, che ha scritto la sceneggiatura. E perché adesso mi sento pronta, anche a essere uno stimolo per le altre: più registe ci sono, più ispiriamo le donne che sognano di diventarlo a provarci. E più abbiamo il controllo delle storie che vogliamo raccontare».