Da bambina io non sognavo di diventare una principessa come le mie amiche. Io da grande volevo fare la star dei fotoromanzi, come Katiuscia, la diva che negli anni ’70 e ’80 conquistava le copertine di Lancio e Grand Hotel.
Mia nonna Pina e sua sorella Maria, dopo aver lavato, cucinato, stirato, lavorato a maglia e accudito tutta la famiglia avevano un hobby: leggere pile di fotoromanzi. Era il loro piccolo premio alla fatica di essere donne all’antica nei modernissimi anni ’70 e ’80. Quelli, appunto, in cui io ero una bambina. Le guardavo con ammirazione mentre sfogliavano avidamente quelle riviste. E una diceva all’altra: «Ammucciale, ca c’è la picciridda» (tradotto dal siciliano: «Nascondile, che c’è la bambina»). Ma io il nascondiglio lo conoscevo bene: il numero più nuovo era nel terzo cassetto a sinistra del comò. E io andavo a frugarci dentro, per leggermi le storie “ammucciuni”, di nascosto.
Perché vi racconto questo aneddoto?
Perché proprio oggi arriva in libreria l’autobiografia di Caterina Piretti: Katiuscia. La diva ribelle (Giulio Perrone Editore). E io lo sto leggendo di nascosto, proprio come facevo allora con le storie di cui lei era la regina indiscussa.
Chi è Katiuscia-Caterina? Ieri era una quindicenne, diva per caso. Una «ragazza del popolo» catapultata nella notorietà. Oggi è una 58enne che abita a Roma e gira l’Italia per mercatini, vendendo ceramiche che fa da sola: tazze e mattonelle che hanno come soggetto i suoi amati animali. Cagnetti, soprattutto: Viola, Filippo, Ciclamino, Zeta, Artù, Pinuccia, Tulipano, Gilda, Rocco e Lola.
In mezzo tra ieri e oggi cosa c’è? Grandi amori, grandi hotel, grandi delusioni. Due mariti, un figlio. E un buco grande così: l’eroina.
Katiuscia, comunque, non è un nome d’arte. Un nome ammiccante, seducente, intrigante… Caterina la chiamavano così in famiglia, racconta lei, perché la madre era albanese. Io la capisco. Perché anche Giusy è un nome, diciamo così, ambivalente. E i miei genitori me lo hanno messo perché suonava moderno.
Eh no, il libro di Katiuscia non ve lo posso raccontare, perché nelle vite degli altri si entra in punta di piedi. E perché è bello da leggere.
Posso solo dirvi che mi ha intenerito il suo ricordo di Franco Califano: più di un flirt, più di un amico. Quando lui scrisse la canzone Tutto il resto è noia, Katiuscia-Caterina c’era.
Posso dirvi anche che quando racconta della sua casa incendiata per “sbaglio” (era una ragazza hippy, con le candele e gli incensi sempre accesi), mi sono riconosciuta: perché anche io, per distrazione, lascio le verdure sul fuoco e mi metto a meditare per raggiungere la consapevolezza di me stessa.
Sorvolerò sugli anni della galera, su quelli dei soldi sperperati per comprarsi le dosi, su quelli della comunità di recupero. Però non dovrei, perché persino nella disgrazia questa donna non ha perso la sua grazia. E adesso lo racconta.
Adesso a Caterina Piretti puoi chiedere l’amicizia su Facebook. E non come fan. Perché del successo, della fama, delle foto sui giornali non le importa più nulla. Katiuscia è parte di lei, ribelle come allora. Ma Caterina è più forte. Perché è serena. Ha vissuto una vita da fotoromanzo, e adesso può cominciare la sua vita vera. Quella che le fa dire: «Prima avevo il terrore di essere felice. E invece ora penso il contrario. Che me lo merito. E che ce lo meritiamo tutti».