Lui riempie tutte le pareti della casa, un loft affogato in un cortile di Parigi. Primi piani color seppia ma anche foto storiche che mostrano la straordinaria somiglianza tra Mazarine Pingeot, la figlia proibita, e un uomo fin troppo famoso, fin troppo celebrato, fin troppo ingombrante: François Mitterrand, suo padre. Stessa faccia, stesso sguardo, perfino la medesima fierezza. Anche se, in pubblico, per vent’anni, lei non ha mai potuto chiamarlo papà: «Quando uscivo dall’Eliseo mi nascondevo sotto il sedile della macchina, ero un affronto alla morale».
Eppure l’ultimo monarca socialista ha sempre avuto per questa figlia un sentimento molto speciale (“la luce degli ultimi giorni“, l’ha definita qualche mese prima di morire). E Mazarine, che pure ha cominciato a vivere ufficialmente solo nel 1994, grazie a uno scoop fotografico di Paris Match, a sua volta ha molto amato suo padre. E ha preso da lui, dice, il terribile piacere di scrivere. Tanto che, a 30 anni, ha già pubblicato il suo quarto libro: Bouche cousue (Bocca cucita), appena uscito in Francia e subito diventato un caso letterario perché traccia un ritratto inedito e molto intimo dell’ex presidente della Repubblica. E, per la prima volta, descrive anni finora avvolti in un impenetrabile segreto di famiglia e di Stato.
Mazarine, salopette grigio cielo a righe azzurrine («Aspetto un bambino da cinque mesi») e capelli neri raccolti con un fermaglio, butta acqua sul fuoco con estremo pudore: «Non aspettatevi grandi rivelazioni. Io parlo del quotidiano, dell’intimità di un rapporto tra un padre e una figlia. Basta».
Un rapporto sul quale lei ha dovuto tenere la bocca cucita per vent’anni…
«Guardi che nessuno me lo ha imposto: sono io che, fin da piccola, ho capito che non dovevo parlare, che mi dovevo imporre un segreto. Forse perché la mia normalità era vedere mio padre in tv, accanto alla moglie Danielle e non a mia madre… Insomma, avevo paura di dargli una seccatura, parlando di noi. Ma sono cose che succedono spesso, in famiglia».
E ne ha sofferto?
«Sì e no. Perché in realtà mio padre è sempre stato molto presente nella mia vita e, anzi, per me ha avuto addirittura un sentimento che andava al di là, rispetto a quello che nutriva per i figli legittimi. Però sarei disonesta se non riconoscessi che mi avrebbe fatto piacere che tutti sapessero che ero sua figlia. Senza che questo costituisse uno scandalo e che io dovessi arrossire di un abbraccio o di uno sguardo in più. Non a caso, a 23 anni, sono entrata in analisi. E, a furia di cambiare pelle, a un certo punto ho smesso anche di mangiare, ero diventata anoressica».
La ferita, insomma, era abbastanza profonda. Ne è guarita?
«L’analisi è un percorso esistenziale: c’era una ferita che andava curata ma poi bisognava anche capirsi, sciogliere certi nodi in rapporto a sé ma anche agli altri… Questo per dire che sono tuttora in analisi. Perché la vita è un work in progress e io voglio andare avanti».
E il libro è stato una sorta di catarsi?
«La scrittura è sempre una catarsi, ma sono diverse le ragioni per cui ho deciso di scrivere Bouche cousue. La prima è che mi pareva di avere perduto certi ricordi, soprattutto quelli dell’infanzia, e che volevo ritrovarne la memoria attraverso la scrittura. La seconda è che pensavo che, prima o poi, avrei avuto dei figli e che qualcuno, nel bene o nel male, un giorno avrebbe parlato loro del nonno. Senza conoscerlo. Avrebbe riferito verità ma, forse, anche menzogne. E magari l’avrebbe insultato. L’ho sentito fare tante volte anch’io: “Quel vecchio imbecille!”, “Quel mascalzone!”. Perfino “Quel fascista”, lui che è stato uno dei pochi francesi a fare la Resistenza. Ricordo giorni interi in cui mi vergognavo a uscire di casa e facevo docce in continuazione per levarmi di dosso tutta quella sporcizia. Ecco: questo libro è la mia reazione tardiva. È il modo più bello e più giusto di tenere viva nel tempo la memoria di mio padre. E non soltanto perché, in un certo senso, ho conosciuto il presidente meglio di tutti, ma perché sono sua figlia. E sono una scrittrice».
Già. Ma perché, dieci anni dopo essere stata riconosciuta, continua a chiamarsi Pingeot e non Mitterrand?
«Perché per vent’anni ho avuto solo quel nome ed è in quel nome che mi identifico e che identifico la mia famiglia. Ma ora penso di aggiungere a Pingeot il cognome di mio padre: voglio essere una Mitterrand. Fino in fondo».
Che rapporto ha con i suoi fratelli? Vi vedete?
«No: quando non hai diviso l’infanzia è difficile trovare un terreno comune. Danielle, invece, l’ho incontrata più volte, abbiamo mangiato insieme. È una donna in gamba, gentile, e mi piace molto. Ma non è mia madre e non è nemmeno un’amica. È Danielle, la moglie di mio padre. Punto».
Parliamo della sua gravidanza: maschio o femmina?
«Non lo so ancora e, per dirla tutta, non è che me ne importi più di tanto. Sarà mio figlio e basta. Mio e di Mohammed, che è un produttore cinematografico e mio compagno da tre anni».
Di nuovo un musulmano?
«Musulmano e marocchino, come Alì, figlio dell’ambasciatore del Marocco a cui, prima di Mohammed, sono stata legata. Mio padre aveva conosciuto e amato Alì: “Non ho nulla in contrario se lo sposerai” mi aveva detto. Non è andata così, ma penso che, se fosse vivo, approverebbe Mohammed con lo stesso entusiasmo: era contro ogni discriminazione di razza e di fede e io gli somiglio anche in questo».
Allora come crescerà questo figlio?
«Nel segno della tolleranza, prima di tutto. E delle due culture: quella francese-cristiana e quella arabo-musulmana. Sarà poi lui, o lei, a decidere, al momento opportuno, cosa essere e in che cosa credere».
Quanto le manca suo padre?
«Tantissimo. E non perché non l’abbia avuto ma, semmai, proprio perché è stato un padre molto presente e mi ha molto amata. Sono passati nove anni dalla sua morte e ancora non mi sono abituata. Del resto non manca solo a me: era un grande e manca a tutta la Francia. Compresi i suoi detrattori».