Il 4 marzo del 2016, a Roma, 2 ragazzi di buona famiglia, Manuel Foffo e Marco Prato, seviziano e uccidono un ragazzo più giovane, Luca Varani. Un omicidio orribile che subito colpisce l’opinione pubblica. Nicola Lagioia, direttore del Salone del libro di Torino e premio Strega nel 2015 per “La ferocia”, viene incaricato da un magazine di seguire la vicenda e di raccontarla. È questa la genesi del suo romanzo “La città dei vivi“ (Einaudi): un libro che suscita domande, fa crollare certezze, ci scuote dalla nostra comfort zone. Per scriverlo, Lagioia ha portato avanti un accurato lavoro di indagine, raccogliendo documenti e interviste, contattando i protagonisti della vicenda, i genitori della vittima, e iniziando un carteggio con uno degli assassini.
Ma come si racconta un omicidio? Come si può rendere, al di là degli sterili fatti, l’ambiente in cui tutto si è consumato? Come si fa a entrare nella mente di un assassino e come si può spiegare la vita di una vittima? Come ci si pone davanti all’orrore? Qual è il confine che delimita il bene dal male, quale il filo su cui si può inciampare? E cosa rimane attorno a questa “bomba” che viene sganciata? Quali ferite portano i superstiti?
«Nessun essere umano è all’altezza delle tragedie che lo colpiscono» scrive Lagioia. «Gli esseri umani sono imprecisi. Le tragedie pezzi unici e perfetti, sembrano intagliate ogni volta dalle mani di un dio». E in queste pieghe degli esseri umani, nelle loro debolezze, imprecisioni, imperfezioni si insinua lo scrittore. Scava nelle persone, nelle loro parole, nei modi di dire, nelle relazioni. Riporta a un livello più terreno quello che nell’immaginario sono mostri «l’illusione che certe cose a noi non potranno mai accadere» sia come vittime, sia come carnefici.
Lagioia ricostruisce tutto: «Sabato 5 marzo Manuel Foffo uscì di casa poco dopo le sette del mattino. Aveva appuntamento con sua madre, con suo fratello Roberto e con i nonni materni. La giornata si preannunciava tutt’altro che allegra. Lo zio Rodolfo è morto». Durante il viaggio in macchina per andare al funerale dello zio, Manuel confessa al padre di avere commesso un omicidio. Lo dice senza empatia: «Uno che si chiama Marco. L’avrò visto in vita mia un paio di volte».
«E quando sarebbe successo questo fatto?». «Non mi ricordo, – rispose Manuel, – due, quattro, cinque giorni fa». Il padre lo incalza, cerca di capire, è stordito, chiede il nome della vittima, «Non lo so», risponde Manuel. Continua fino a scoprire dove: «A casa», nell’appartamento di via Iginio Giordani.
La ricostruzione di quella mattina è solo l’inizio di una storia, tante storie, vite che si incontrano, si intrecciano, si sfiorano. Vite vere, anime allo sbando, confini che si sbriciolano. Tanta coca, tanta incomprensione, tanta solitudine. Una storia maledettamente brutta.
Lagioia ricostruisce la vicenda, dei verbali della polizia fa racconto, confeziona le interviste con i protagonisti, ci fa ascoltare le parole della fidanzata di Luca, degli amici di Marco, dei genitori di Manuel. Ne viene fuori un mondo pieno di tante ombre, con ragazzi poco strutturati, incapaci di resistere al male che è insito dentro all’uomo e in chi è più debole, sembra dirci questa storia, cresce, si nutre, sfonda ogni protezione.
Via via che la storia si dipana, e il romanzo continua, Lagioia avanza una serie di riflessioni sulla natura umana, le debolezze, il male e la facilità con cui ci si può sprofondare. Pensieri affilati come lame che toccano sia l’autore sia i lettori. Dietro ai fatti c’è l’umanità, la perdita e il vuoto. Un’atmosfera tetra e a volte squallida. Parallelamente c’è, sullo sfondo una Roma caotica, sporca, che ha perso la bussola. Una Roma con due papi e senza sindaco, dove si aggirano tipi loschi e automobilisti incazzati. Difficile non pensare a Truman Capote e Emmanuel Carrère: Lagioia qui sembra prendere la loro strada nel raccontare gli abissi dell’animo umano.