«Se la protagonista è femmina, alla fine del romanzo o si deve sposare o deve morire». Così suggerisce il cinico editore newyorkese all’aspirante scrittrice Jo, che a tali parole inorridisce. Eppure è questo il destino delle quattro sorelle March, protagoniste del bestseller mondiale Piccole Donne: una muore, tre si sposano. Un destino a cui non sfuggono neppure nell’ultimo bellissimo adattamento cinematografico della regista Greta Gerwig, al cinema da una settimana. Che però si prende la responsabilità artistica di spiegarcene il perché. Il matrimonio è sempre una questione di soldi, anche in letteratura. Senza un finale con matrimonio, il libro Piccole Donne non avrebbe venduto: le lettrici preferiscono il lieto fine alla coerenza. Così dice l’editore a Jo. Così probabilmente fu detto a Louisa May Alcott, autrice del romanzo. Che aveva plasmato la sua eroina su se stessa, eccetto che per un dettaglio: a differenza di Jo, lei non si sposò mai.
Ecco, l’impressione è di andare al cinema nel 2020 e di vedere ciò che avrebbe scritto Louisa May Alcott nel 1868 se fosse stata libera di farlo. Senza tutti i predicozzi moralistici che aveva dovuto introdurre nella stesura e che lei stessa, dipendente da droghe, diceva di non amare. Ma il “non scritto” più bello che tira fuori la regista Greta Gerwig riguarda mamma March. Che in questo film emerge in tutta la sua statura di radice da cui germogliano quattro modi diversi di essere femministe. E che non teme di confidare a sua figlia di non essere paziente per carattere. Ma di essere stata arrabbiata quasi ogni giorno della sua vita, e di aver imparato a non mostrarlo; sperando prima o poi di non sentirlo. Non che voglia insegnare questo a Jo, anzi: «Ci sono nature troppo nobili per frenarsi, troppo alte per piegarsi» la incoraggia.
Benché le tre sorelle cedano alle lusinghe del matrimonio, riescono nella difficile impresa di farlo per amore. Un lusso straordinario all’epoca. Non solo per i poveri, che in tal modo rischiavano di rimanere tali, ma anche per le donne ricche, che con il matrimonio cedevano tutti i loro beni al marito (ecco perché zia March, femminista involontaria, non si era sposata mai). Di questi matrimoni per amore, Greta Gerwig ci mostra sì la favola, ma anche la scomodità. Per tutto il film, vediamo una Meg che è alle prese con la difficile vita di moglie di un maestro, che non può permettersi di coltivare la sua vanità e che patisce il confronto con le altre. Che nessuno di noi, dunque, pensi che seguire il cuore costi poca fatica.