Le guerre lasciano profonde ferite, non solo fisiche. Il film L’appuntamento della regista e sceneggiatrice macedone Teona Strugar Mitevska, dal 6 aprile nelle sale, inizia con uno speed date fra una donna e un uomo: seduzione che poi diventa scontro. Ed è una riflessione sulla storia recente di Sarajevo, sulle divisioni etniche, sui traumi dell’assedio della città durante la guerra in Bosnia Erzegovina che negli anni ’90 ha causato 12.000 vittime e 50.000 feriti tra i civili. Il film è forte, girato all’interno di poche stanze dove si consumano drammi e si sprigionano emozioni ed è stato accolto molto bene alla scorsa edizione del Festival di Venezia.
L’appuntamento: la regista Teona Strugar Mitevska
Teona Strugar Mitevska è una regista interessante. Prima di questo aveva già fatto parlare di sé col film Dio è donna e si chiama Petrunya, che ha vinto il premio della Giuria ecumenica al Festival di Berlino nel 2019, e racconta di una donna di 32 anni disoccupata che si ritrova per caso a gareggiare con degli uomini durante una celebrazione religiosa e vincere. Il trofeo da conquistare è una croce che però non può stare tra le mani di una donna. E quello diventa un pretesto per rivendicare la propria volontà di autodeterminazione e denunciare il sistema patriarcale basato su antiche convinzioni. Anche L’appuntamento è un film che scardina certezze perché pone domande sul senso di colpa e sul perdono, sulla guerra e sulle divisioni religiose e politiche.
L’appuntamento: la trama del film
Sarajevo oggi: Asja è una donna single di 40 anni e per incontrare l’anima gemella si iscrive a un buffo evento di speed dating che si tiene in un palazzo a pochi metri da dove sono sepolte le vittime della guerra che ha tenuto sotto assedio la città negli anni ’90. All’appuntamento ci sono altre coppie di tutti i tipi e di diverse religioni. Uomini e donne che vogliono dimenticare e iniziare una nuova vita. Due signore ingioiellate e dal look leopardato conducono il gioco mentre ai partecipanti viene chiesto di indossare un mortificante grembiule color glicine per rendere l’incontro più neutro e far sì che gli abiti non distraggano dalla vera natura dell’appuntamento: conoscere l’altro, la sua personalità, i suoi sogni e desideri, il passato e l’idea di futuro. Asja si incontra con Zoran, col quale già aveva preso contatto su Internet. È un uomo bello, misterioso e terribilmente tormentato. Il gioco della seduzione comincia ed evolve a poco a poco. Ma Zoran non è lì per cercare l’amore: è lì per guardare in faccia Asja e per rivelarle qualcosa che ha unito i loro destini.
L’intervista a Teona Strugar Mitevska
Abbiamo incontrato la regista Teona Strugar Mitevska che in questi giorni è in Italia per presentare il film L’appuntamento.
Perché ha scelto ora di fare un film che parla della guerra in Jugoslavia 30 anni fa e delle cicatrici che ha lasciato?
«Abbiamo iniziato a pensare a questo film 4 anni fa. Mi ricordo che eravamo alla ricerca di fondi europei e la commissione del Belgio mi chiese perché volevo fare un film a distanza di così tanto tempo dalla guerra in Bosnia. Io risposi che era l’ex Jugoslavia, un patrimonio che riguarda l’Europa, il nostro passato, la nostra eredità. Ricevetti poi i soldi da altri Paesi, girammo il film e durante il montaggio l’anno scorso è scoppiato il conflitto in Ucraina. Così all’improvviso il tema è diventato estremamente attuale. L’appuntamento è la storia vera di Elma Tataragić, con cui ho scritto la sceneggiatura. Era da tanto che volevamo farlo. Ma per poter raccontare cose così personali e intime hai bisogno di una distanza che solo il tempo ti può dare. Il film è stato fatto quando Elma si è sentita pronta a condividerle».
Ha usato lo speed date come stratagemma narrativo per raccontare un incontro che è anche seduzione e lotta. Perché?
«Perché se avessimo fatto un film di guerra o un documentario nessuno l’avrebbe distribuito e nessuno l’avrebbe visto. Abbiamo usato questo tipo di narrazione per rispondere a quello che la gente vuole: è importante fare film che raccontino come è il mondo oggi e che parlino a tutti. Abbiamo discusso a lungo per capire quale sarebbe stata la forma giusta, quale il contesto, per questa storia. Sapevamo che volevamo raccontare la Sarajevo di oggi e la gente che ci vive. Perché anche se la guerra è finita molti anni fa, i segni sono ancora ovunque: sui corpi, negli animi, per le strade. È qualcosa che è ancora molto presente. L’appuntamento è anche un film che lancia un monito sul pericolo e il male che derivano dai conflitti. Così abbiamo usato l’espediente dell’amore che è universale».
Perché si svolge in un luogo chiuso?
«È un aspetto squisitamente registico. Amo girare in luoghi chiusi. La seconda parte di Petrunya è girata dentro una stazione di polizia. È una sfida per me. Qui ho messo 40 persone in una stanza per vedere quali emozioni evocava. Nella guerra in Bosnia c’erano le vittime, la popolazione civile e anche coloro che andavano a fare la guerra. C’erano interessi politici e le persone, come anche in Ucraina oggi, erano come topi in gabbia. Quella stanza è come una gabbia di cavie, un esperimento per vedere come interagiscono tra loro: è una immagine speculare di quello che avviene in una situazione di conflitto».
Molti nella stanza non erano professionisti.
«Su 40 solo 17 sono attori professionisti che vengono da Sarajevo o da zone limitrofe della Bosnia: Mostar o Bania Luka. Molti di loro hanno vissuto la guerra. Alcune scene e perfino qualche dialogo del film derivano dalle loro storie personali che sono emerse durante le prove. Parlano di se stessi attraverso il film. Erano storie così forti che le abbiamo inserite poi nella sceneggiatura che all’inizio doveva riguardare solo Asja e Zoran».
Jugoslavia: ieri e oggi
Teona Strugar Mitevska, lei viveva in Jugoslavia durante la guerra? Che ricordo ha?
«Quando c’era la guerra io ero negli States a studiare cinema. Ma io sono macedone, e comunque mi sono resa conto preparando questo film che vengo da un Paese, la ex Jugoslavia, il cui destino è stato stravolto e ha cambiato la traiettoria della mia vita. Questa però è la storia di Elma, non la mia».
Oggi la Jugoslavia è diventata tanti Paesi diversi, cosa è rimasto di quello che era prima?
«È rimasto tutto. Noi siamo la stessa gente, con tante cose in comune: abbiamo gli stessi riferimenti. È incredibile quante cose in comune e simili abbiamo. I bosniaci, i croati, i serbi, i montenegrini… siamo uguali. Ecco perché dico che la popolazione è vittima. Non capirò mai perché è scoppiata la guerra. E ancora non capisco perché non siamo di nuovo insieme. Tutti i miei film sono frutto di cooperazioni e artisticamente lavoriamo insieme».
Che reazioni ha avuto la gente che ha visto il suo film?
«10 giorni fa abbiamo avuto la première a Sarajevo. Eravamo molto nervosi. Non sapevamo come la gente avrebbe reagito riguardo all’aspetto del perdono. Ma è andato meglio di quanto ci aspettassimo. È un film che unisce le persone in qualche modo. Molti si sono riconosciuti in molti aspetti. Sia quelli che sono partiti per la guerra, che l’hanno vissuta oppure no».
Nel film a un certo punto c’è un confronto tra gli uomini e le donne che stanno nella stanza dello speed date e i giovani di Sarajevo oggi che ballano in una stanza vicino, cosa significa?
«Le interpretazioni possono essere diverse. Questa scena si presta a varie chiavi di lettura. È un momento catartico per Asja: il tema del film è l’assunzione di responsabilità da parte di noi e la capacità di ascolto delle ragioni dell’altro. È anche uno spaccato della vita dei giovani bosniaci oggi che probabilmente vogliono solo dimenticare ed essere felici. D’altronde una guerra come quella di Sarajevo ha rappresentato un trauma fortissimo, come una malattia che ti penetra nei pori della pelle e che si trasmette di generazione in generazione. L’unico modo per superare il trauma è quello di affrontarlo e viscerarlo. Poi c’è una terza chiave che riguarda il dato anagrafico: Asja nel momento in cui la guerra l’ha colta aveva l’età dei giovani che stanno festeggiando e tra i quali lei si unisce. Ballare le consente di fare quello che alla stessa età lei non ha potuto fare».