Anche quest’anno al Festival di Cannes è arrivato il film-scandalo. E cioè The House That Jack Built del “ragazzo terribile” Lars von Trier, che sembrava definitivamente sgradito alla kermesse dopo le controverse dichiarazioni sul nazismo del 2011. Invece rieccolo, con un’opera che ha sollevato un vero caso. Noi c’eravamo: ecco cos’è successo.
Si sviene o non si sviene? Il film non è certo fatto per gli stomaci più deboli. Racconta la parabola di un serial killer (un bravissimo Matt Dillon) attraverso cinque “omicidi tipo”, da quello di una donna a cui dà un passaggio apparentemente innocuo (interpretata da Uma Thurman) all’uccisione di una ragazza che lo credeva un fidanzato perfetto (a darle il volto c’è Riley Keough, la nipotina di Elvis Presley). Io l’ho visto durante la proiezione per la stampa stampa, dove non sono accaduti i fatti riportati durante la visione ufficiali. Ovvero, svenimenti e fughe dalla sala davanti a sequenze decisamente forti: la mutilazione di un seno, lo sterminio di una famiglia, perfino l’imbalsamazione di un bambino. Anche Twitter è impazzito: gli spettatori di tutto il mondo presenti in sala hanno messo all’indice gli attori per aver accettato un racconto così atroce, e l’autore per aver promosso una violenza assolutamente gratuita. Durante la proiezione per i giornalisti, tutto è andato liscio. O quasi: al massimo qualcuno ha lasciato la sua poltrona prima della fine, semplicemente annoiato dalla visione. Io sono rimasto fino al termine delle 2 ore e 35 minuti totali. Senza svenire, ma senza neanche esultare per l’atteso ritorno del regista danese.
Le polemiche sono giuste? A film appena finito, nella testa hai già moltissimi pensieri sparsi. Il primo: pur non essendo mai stato un grande fan di Lars von Trier, la sua capacità di essere un autore che divide le platee rimane indubbia, e questo è un merito dei grandi registi, piacciano o non piacciano. La sua storia con Cannes è costellata di successi (il Gran premio della giuria nel 1996 con Le onde del destino e la Palma d’oro quattro anni dopo per Dancer in the Dark), ma anche di controversie. L’ultima è appunto quella del 2011, quando venne a presentare Melancholia: «In fondo capisco Hitler», ha dichiarato nel corso della conferenza stampa. «Ha fatto molte cose sbagliate, ma se lo immagino alla fine dei suoi giorni nel suo bunker, mi posso immedesimare in lui». The House That Jack Built torna su quella polemica, facendo una specie di processo a se stesso: è citato spesso il nazismo, e sono presenti spezzoni dei suoi film più celebri. Durante la proiezione, più che il disgusto per le violenze mostrate ho sentito serpeggiare in sala una netta divisione del pubblico tra chi comprendeva questo bisogno di autoassoluzione e chi lo trovava un semplice gesto inutile e narcisistico. Ne siamo usciti tutti comunque scossi. La rentrée di Von Trier non è di certo un capolavoro, ma lui di sicuro ha vinto: tutti, sulla Croisette e non solo, ne stiamo parlando.