Nate a una manciata d’anni di distanza e cresciute nel cuore della comunità ebraica di Roma, Giulia Spizzichino e Lia Levi, scrittrice e giornalista oggi 93enne, non si sono mai conosciute. Eppure la furia persecutoria culminata nel 1943 con il rastrellamento del ghetto ha impresso una svolta indelebile alle esistenze di entrambe, destinandole alla stessa missione di testimonianza e lotta a un antisemitismo che, sostiene l’ultima indagine dell’Agenzia dell’Ue per i diritti fondamentali, registra un’impennata preoccupante. Il rapporto rileva dall’ottobre 2023, online e nella sfera pubblica, un aumento di episodi di discriminazioni, molestie e aggressioni contro cittadini ebrei superiore al 400% rispetto al quinquennio precedente. Un clima che Lia Levi ha stigmatizzato spesso nei suoi recenti interventi. A differenza di quella di Giulia Spizzichino, nel 1943 la sua famiglia riuscì a mettersi in salvo:

«Le mie sorelle e io trovammo scampo dentro un collegio, in un convento di suore. Non ho vissuto l’angoscia di chi stava fuori. Ricordo però il momento esatto in cui il mio mondo andò in pezzi».

La nostra intervista a Lia Levi

Quando accadde?

«Fu quando mia madre si presentò al convento. Non era giorno di visite, la raggiunsi in presidenza e lei scoppiò a piangere. “Stanno portando via tutti gli ebrei” disse. Compresi che i grandi non potevano più proteggerci».

Quando acquisì piena coscienza dell’accaduto?

«Dopo la Liberazione si respirava un clima di angoscia, ma le notizie arrivavano alla spicciolata. Per un lungo periodo chi aveva familiari deportati si recava quotidianamente in stazione, contando su un prossimo ritorno. Di lì a poco si spalancò l’orrore: Anna Frank prima, poi Primo Levi. Cominciai a sentirmi in colpa: succede a chi viene risparmiato. Presi a leggere tutti i libri sullo sterminio, ma il rimorso di aver vissuto ignara per anni mi congelò a lungo».

Fino a quando?

«Il primo libro, Una bambina e basta, lo scrissi intorno ai 60 anni. Negli anni ’90, forse per via del crollo del muro di Berlino, si sbloccò qualcosa: diventati nonni, i bambini di un tempo cominciarono a pubblicare le proprie testimonianze, rievocando l’infanzia, le leggi razziali, il censimento, la perdita progressiva dei diritti, tutte le tappe della discesa agli inferi».

Che cos’è l’antisemitismo?

Poi vennero altri libri: uno di questi spiega ai ragazzi cos’è l’antisemitismo.

«Dopo il primo, cominciarono a invitarmi a parlare nelle scuole: nelle domande degli studenti leggevo segnali allarmanti, preconcetti cristallizzati. Ho cominciato a segnarmele, convinta che ci fossero ancora tante cose da spiegare per sfrondare il pregiudizio».

Che cos’è l’antisemitismo? è stato aggiornato e ripubblicato da poco.

«La narrazione era riferita a un clima d’odio che speravo ci fossimo lasciati alle spalle. Ma dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 e la risposta militare di Israele è montata una campagna crescente di antisemitismo: non si può più far finta di niente».

Ha detto: «Abbiamo raccontato l’Olocausto nella maniera sbagliata».

«Anche grazie all’istituzione della Giornata della Memoria, ora la sensibilizzazione sull’antisemitismo è capillare. Andando nelle scuole si comprende come i ragazzi non siano più ignari, almeno i più grandi, gli insegnanti ne parlano, circolano libri, film e serie, notizie sul web. Si capisce però anche che questa partecipazione coinvolge le persone solo su un piano emotivo. L’ebreo vittima sembra a volte l’unica nostra versione socialmente accettata».

Che cos’è l’antisemitismo?, libro di Lia Levi dedicato ai ragazzi (ripubblicato di recente da Il battello a vapore)

Lia Levi: la conoscenza si trasformi in coscienza

Qual è la strada giusta?

«Bisogna continuare a scavare, finché la conoscenza non si trasformi in coscienza. Perché il nazismo s’è accanito su ogni singolo bambino ebreo? Che cosa ha provocato tutta quella sofferenza? Questo va spiegato. Perché l’antisemitismo è un fenomeno carsico, mai morto».

Accusa l’antisemitismo di indossare la maschera dell’antisionismo?

«È un alibi che non regge più. Israele sta conducendo la sua guerra, giusta o sbagliata, si muove secondo una logica militare. Ma questo non autorizza nessuno a buttare dalla finestra un’anziana scampata ai lager. Ci sono scuole, nel vicino Belgio, dove gli studenti ebrei non possono più stare. Ad amici miei è stato proibito di presentare libri: non sulla guerra, ma sulla cultura ebraica, tema ormai bandito da molti corsi universitari. Cosa c’entra questo con le politiche di Netanyahu? Perché io, come ebrea, devo scusarmene e sentirmi colpevole? Da italiani, non ci sentiamo mica in colpa per le scelte politiche, anche aggressive, dei nostri governi. Mi rifiuto di indossare l’etichetta della buona ebrea per poter dire la mia in pubblico. Una democrazia che rilascia una patente in cambio del diritto di parola è messa piuttosto male».

Lia Levi: Israele è colpevole di genocidio?

Perché l’uso del termine genocidio, riferito a Israele, l’addolora?

«Vorrei evocare un altro termine: “coventrizzazione”, coniato dagli storici in relazione al bombardamento della città inglese di Coventry, totalmente distrutta dall’aviazione tedesca nel 1940. È una strategia adottata anche in Ucraina: massacra indistintamente i civili, costringendoli all’esodo. La vendetta degli alleati non fu da meno: Dresda nel 1945 fu rasa al suolo. Diversamente, le vittime di Auschwitz, non lontano da lì, furono prelevate in giro per l’Europa una per una, solo perché ebrei, un popolo da sterminare. Coventry e Dresda furono atti di guerra, le guerre sono una cosa infame. Per questo bisogna lavorare per la pace, per un dialogo senza pregiudizi e censure, che prevenga ogni spirale d’odio».

La soluzione non è facile.

«Si comincia tenendosi alla larga dai giudizi facili, dalla superficialità, ripristinando un grado minimo di civiltà. L’antidoto è non aver paura di scavare nella complessità».

L’ultimo libro di Lia Levi

Il suo ultimo libro descrive un’epoca, l’alba del ’900, in cui la comunità ebraica romana era al centro di quel dialogo, attraversata da fermenti di progressismo e femminismo.

«E se non partissi anch’io è ambientato a Roma, l’ultimo ghetto caduto, nel 1870, quando i membri di una comunità a lungo chiusa cominciarono a respirare l’ebbrezza di sentirsi cittadini al pari degli altri. Al centro del romanzo c’è però l’emancipazione di una ragazza che, tra modernità e tradizioni, mette in discussione il suo destino di moglie, vuole studiare e diventare insegnante, contro il parere della madre. Perché un’altra discriminazione carsica e cronica attraversa la storia dell’umanità».

Quale?

«Quella che mette costantemente a rischio l’integrità e la libertà di scelta delle donne. Pensi alle afghane, private di ogni diritto, quasi cancellate. O alle iraniane: la loro ribellione strenua, disperata, non si spegne. Sono le eroine del nostro tempo. Non lasciamole indietro».