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– Storie che emozionano
Gaia, che fin da bambina impara a lottare

letto da Isabella Fava

«Questa non è una biografia, né un’autobiografia, né una autofiction, questa è una storia che ha ingoiato frammenti di tante vite per provare a farne una narrazione, il racconto degli anni in cui sono cresciuta, dei dolori che ho solo circumnavigato e di quelli che ho solo attraversato». Non c’è modo migliore per descrivere un romanzo intenso e dolente come L’acqua del lago non è mai dolce che le parole finali dell’autrice: Giulia Caminito, 33 anni, tra i 12 candidati al Premio Strega.
La sua scrittura è affilata, tagliente, a volte poetica, spesso dura quando racconta di Gaia e di sua madre Antonia. Antonia ha i capelli rossi, come la figlia, ed è una lottatrice. La vita le ha regalato solo gli scarti, l’ha messa all’angolo, e lei deve combattere, da subito, per l’assegnazione di una casa popolare, per i suoi 4 figli, per il marito rimasto paralizzato mentre lavorava in nero in un cantiere. Antonia fa le pulizie nelle case dei ricchi e si fa in quattro per dare un futuro a Massimiliano, a Gaia, ai gemelli. Per farli studiare, per insegnare loro cosa è giusto e cosa è sbagliato.

Gaia (ma il suo nome compare solo quasi alla fine) è una bambina, poi ragazza, poi donna, che comprende le ingiustizie, non le sopporta, è pervasa da una inquietudine strisciante che a volte diventa ferocia. Vorrebbe essere amata, compresa. Vorrebbe tutte quelle cose futili che hanno i suoi coetanei: un telefonino, una bicicletta, dei vestiti nuovi, essere ammirata. Ma le fatiche sono tante, l’amore è precario, le amicizie se ne vanno lasciando dietro una scia di rancori e incomprensioni e solitudine. Siamo negli anni Duemila, sullo sfondo c’è il lago di Bracciano, scuro, minaccioso, che cova segreti ma che è anche uno specchio magico. Possiamo chiamarlo romanzo di formazione, anche se poi tutto rimane sospeso e perfino impegnarsi nello studio all’università a Gaia non darà frutti.

Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce, Bompiani, € 18


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– La scrittrice da scoprire
Shirley Jackson

Occhiali tondi e capelli sottili tenuti di lato con un fermaglio. Così appare nelle foto la scrittrice americana, considerata una maestra del genere gotico e venerata da Stephen King. Shirley Jackson (1916-1965), nata a San Francisco, è stata madre di 4 figli e moglie di Stanley Hyman, critico letterario. Ma è lei a diventare famosa, nel 1949, con un racconto pubblicato sulla rivista New Yorker dal titolo La lotteria (Adelphi) e con un epilogo così crudele da suscitare scalpore perché creduto vero.

Shirley crea un mondo in cui si percepisce che qualcosa di terribile è accaduto o accadrà, e lo fa con una scrittura chiara ed elegante. Nelle case e nei castelli dei suoi romanzi racconta l’inquietudine e le paure dei protagonisti, quelle di cui possiamo soffrire tutti, perché abbiamo famiglie che non ci hanno capite (come la sua). O abbiamo vite che sembrano felici, ma dietro le quali si nascondono frustrazioni e voglia di nuovi orizzonti.

Anna Scarano


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– Continuo a rileggerlo
Andrea Delogu e Middlesex

Io tendo a non rileggere interamente un libro: è troppa la voglia di scoprire altri mondi e la fascinazione di un libro nuovo è più forte per me di quella della rilettura. Però sottolineo e a volte fotografo i passaggi che mi colpiscono di più, o scrivo ovunque delle frasi per trattenerle. Spesso poi le rileggo, a volte cercandole, a volte riscoprendole per caso. Ogni fase della mia vita ha un libro che ho particolarmente amato e che in qualche modo la rappresenta. Quello dell’inizio della fase matura è Middlesex, il romanzo di Jeffrey Eugenides che ha vinto il Premio Pulitzer nel 2003 (Mondadori). Racconta la storia di Calliope, che a 14 anni si scoprirà Cal: un viaggio affascinante e misterioso alla ricerca dell’identità, un percorso sofferto e per certi versi estremo, ma che in qualche modo ci coinvolge tutti­.

Andrea Delogu conduttrice tv e autrice del podcast Nodi (ChoraMedia)


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– Storie che catturano
Una saga familiare ricca di baruffe e humour

letto da Chiara Sessa

I miei giorni nel Caucaso, regalo di un’amica che conosce bene i miei gusti letterari, mi ha catturato fin dalle prime righe: «Al contrario di certe degne persone, nate in famiglie “povere” ma “a posto” io sono nata in una famiglia per niente “a posto”, ma molto ricca». C’è la promessa del racconto di una saga familiare, genere che adoro, fatto con la giusta dose d’ironia.

La vicenda si svolge in Azerbaigian, Paese che non conosco affatto, in un periodo cruciale della sua storia: i primi anni del 20esimo secolo, a cavallo della Rivoluzione russa che porterà il caos nel Caucaso. Spinta dalla curiosità e guidata da una scrittura avvincente, mi sono avventurata nella giovinezza dell’autrice, Banine (pseudonimo di Umm-el-Banine Assadoulaeff, nata a Baku nel 1905), e nelle vicende della sua incredibile famiglia dove le donne sono protagoniste, anche se è stato il bisnonno contadino a cambiare le sorti dei suoi discendenti con un colpo di zappa che ha fatto zampillare il petrolio. Col padre sempre in viaggio, spetta a fräulein Anna allevare Banine e le sue 3 sorelle, ma l’educazione all’europea è osteggiata dalla nonna musulmana, che parla solo azero, prega 5 volte al giorno e impreca come un soldato. D’estate, quando la famiglia si trasferisce nella villa sul Mar Caspio, al gruppetto si aggiungono le zie, fanatiche del poker e dedite a interminabili liti sull’eredità, la cugina Gulnar che non vede l’ora di trovare un marito di buon carattere per poi potersi dedicare alle gioie del sesso con gli amanti, la zia Reina, la preferita di Banine, dalla cui biblioteca lei ruba i romanzi di Flaubert e Maupassant.

Questa vita di agi e baruffe viene bruscamente interrotta dalla Rivoluzione di Ottobre, nel 1917. Ma l’autrice riesce a raccontarti persino l’arresto del padre e la fuga della famiglia con un incantevole sense of humour. Che è quello che ci servirebbe in ogni momento della vita.

Banine, I miei giorni nel Caucaso (trad. di Giovanni Bogliolo), Neri Pozza, € 19


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– La tesi
Se facciamo sentire sbagliato chi soffre, gli impediamo di ribellarsi

Dalle pene d’amore al dolore della malattia, non sopportiamo più la sofferenza. Al contrario: la evitiamo perché, scrive il filosofo sudcoreano Byung Chul Han, «non è compatibile con la performance». In un mondo in cui dobbiamo essere sempre attivi, aggiornati, efficienti, «il dolore viene interpretato come un segno di debolezza, come un atto di passività intollerabile in un contesto in cui l’importante è sentirsi in grado di agire». Ma qual è il prezzo di questa rimozione collettiva? Per esempio, l’instaurarsi di una cultura del “mi piace”. E l’obbligo di sentirsi sempre felici perché così non critichiamo le ingiustizie. Far sentire sbagliato chi soffre gli impedisce di ribellarsi. Al posto della rivoluzione, c’è la depressione.

Elisa Venco

Byung Chul Han, La società senza dolore (trad. di Simone Aglan-Buttazzi), Einaudi, € 13


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– La citazione
«Ci adattiamo all’assenza, facciamo continui aggiustamenti. Finché non ci accorgiamo di assomigliare di più a quello che manca che a quello che resta»

Claudia e Antonio. Imparare l’amore. Imparare a parlare. A ferirsi con consapevolezza. È quello che ti meriti è l’anatomia della fine di un matrimonio, costruito pezzo per pezzo e ora divorato da se stesso e dal taciuto. È una casa piena di mobili da spostare per punire, liberare e fare spazio al nuovo. È una stanza fredda d’ospedale. È un pavimento da cui risollevarsi dopo aver subito la crudeltà del tempo immobile. In questo ping pong di sentimenti, Barbara Frandino realizza l’atrocità del conflitto tra l’abitudine e un istinto di sopravvivenza che lotta contro la cronicità del dolore mentale, con un linguaggio intelligente e nuovo, in cui non si vince e non si perde. Si vive.

Natalia Ceravolo

Barbara Frandino, È quello che ti meriti, Einaudi, € 15,20


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– Storie che toccano
La madre felice a volte è solo un mito

letto da Sara Peggion

Sono l’ultima di 4 femmine nate nel giro di 5 anni. La maternità, per mia madre, è stata una rapida e solitaria volata «vivendo un giorno dopo l’altro», senza soffermarsi troppo sulle fatiche provate. Non ho mai capito il suo mistero, spesso ho pensato mentisse, di certo mi sono lamentata molto di più avendo avuto la metà dei suoi figli.

Anche per Rachel Cusk il passaggio da donna a madre è stato impetuoso e menzognero, come scopriamo nel saggio Il lavoro di una vita, pubblicato 20 anni fa e riedito oggi da Einaudi. La raffinata intellettuale canadese racconta senza filtri come – 31enne e professionalmente realizzata – si è affacciata alla sua prima maternità totalmente impreparata, restandone travolta, sospettando di essere vittima della congiura che da secoli porta le donne a non dire la verità riguardo al parto, all’abnegazione richiesta nei primi mesi, al cambiamento drastico che le attende.

Viviamo con Rachel tutte le tappe obbligate della sua (e nostra) trasformazione: le prime visite, la mutazione del corpo, la manualistica che insegna a essere madri prodighe e silenti, la fatica dell’allattamento al seno, le coliche, i pianti, la simbiosi e l’isolamento, la perdita del senso del tempo e del sé. Sincera e tagliente, Cusk smonta il mito della madre felice a ogni costo e ci fa sentire normali: anche noi, come lei, abbiamo avuto sentimenti ambivalenti verso i nostri neonati e ci siamo sorprese soffocate, sacrificate, mai davvero aiutate alla pari dai nostri compagni, incastrate in un immaginario che si ama dipingere a tutti i costi idilliaco, e di certo a tratti lo è. Ma non sempre e non per tutte.

Alla prima uscita, il saggio di Rachel Cusk è stato duramente attaccato e lei accusata di essere una moderna Medea, una donna anaffettiva, una blasfema che ha osato mettere in discussione la religione della maternità. Oggi le sue parole toccano e fanno riflettere, ma non scandalizzano più. In un certo senso, una conquista.

Rachel Cusk, Il lavoro di una vita (trad. di Micol Toffanin), Einaudi, € 11,40


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– Segnalato da voi
L’inverno del mondo secondo Ken Follett

di Maria Luisa Renaud

Amo leggere le saghe di Ken Follett, le sue storie grandiose, gli intrighi. La Trilogia del secolo è un affresco della società del 1900, raccontata attraverso le vicende di 5 famiglie dislocate in varie parti del mondo e dei loro discendenti. Il primo romanzo della trilogia è La caduta dei giganti, che copre un periodo che va dal 1911 al 1924. Il terzo è I giorni dell’eternità e va dal 1961 al 1989.

Ma è L’inverno del mondo, il secondo, che racconta l’ascesa di Hitler, la Seconda guerra mondiale fino alla Guerra fredda, che mi è piaciuto particolarmente. Perché sono gli anni che io, oggi 80enne, ho vissuto più da vicino.

Ken Follett, L’inverno del mondo, Mondadori, € 13,60


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– Da regalare
Alla figlia adolescente

È la storia sentimentale di una sorella-di-mezzo in quella terra di mezzo che è stata l’Irlanda del Nord nel pieno della guerra civile. Siamo negli anni ’70, quando la «violenza era per tutti il principale parametro per scoprire chi avevi intorno». Ma di violenza, quella vera, nel romanzo ce n’è poca. C’è invece tutta la violenza delle parole. Quelle sussurrate, con intento predatorio, dal cognato alla sorella-di-mezzo (i personaggi non hanno nomi qui) quando è solo 12enne. E quelle ripetute per tutto il romanzo dai «professionisti del pettegolezzo» sulla presunta relazione tra lei e il lattaio (Milkman), a sua insaputa («Non era il nostro lattaio. Dubito che lo fosse di qualcuno»). Anzi, ormai 18enne, sorella-di-mezzo da quasi un anno, ogni martedì sera, si vede con “forse-fidanzato”… Un libro per tutte le ragazze che sa restituire il giusto peso alle parole e alle chiacchiere, soprattutto a quelle meno gradite.

S.d.L.

Anna Burns, Milkman (trad. di Elvira Grassi), Keller, € 19,50

A cura di Isabella Fava – testi di Natalia Ceravolo, Andrea Delogu, Isabella Fava, Stefano de Laurentiis, Sara Peggion, Maria Luisa Renaud, Anna Scarano, Chiara Sessa, Elisa Venco

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