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– Donne che soffrono
Agnes, mamma inquieta di un ragazzino gay

letto da Isabella Fava

Ci sono romanzi che raccontano la vita in un modo così denso che ti sembra di viverla, di toccarla. Per questo ho amato fin da subito Storia di Shuggie Bain di Douglas Stuart, che con questo esordio ha vinto il Booker Prize 2020. Shuggie è il soprannome di Hugh Bain, ragazzino particolare, che cresce a Glasgow durante gli anni duri del thatcherismo. La madre, Agnes, capelli corvini e gli occhi verdi come Liz Taylor, è alcolizzata. Il padre puttaniere li abbandona in una squallida casa ai margini della città, dove ogni speranza è soffocata dalla polvere delle miniere in disuso che entra negli occhi, nella pelle e nei pensieri. Mentre i 2 fratelli più grandi, Leek e Catherine, cercano in continuazione una via di fuga dal degrado, Shuggie si occupa della madre e cerca conforto nei nonni.

Cresce nonostante tutto, malgrado gli atti di bullismo degli altri ragazzini che lo prendono in giro perché è effemminato e usa un linguaggio “forbito”, cresce nonostante il quartiere poverissimo, contagiato dalla volgarità e dalla depressione. Diventa grande quando si ritrova da solo. La disperazione è tangibile nei volti delle persone che incontra, nelle loro misere esistenze.

Eppure c’è tanto amore nel racconto di questa famiglia, nei loro legami traballanti. Tanto perdono e comprensione per i gesti di follia di una madre accecata dall’alcol, dall’inquietudine e dalla disperazione. Una struggente voglia di comprensione e affetto.

Perché in fondo c’è molto della storia vera dell’autore in questo romanzo: la madre morta per alcolismo, il legame con lei, la scoperta della propria omosessualità. E Glasgow e la Scozia degli anni ʼ80 sono protagonisti con la crisi economica e un patriarcato che non consentiva alle donne di lavorare ma permetteva loro di crescere figli che poi vagavano per strada.

Douglas Stuart, Storia di Shuggie Bain (trad. di Carlo Prosperi), Mondadori, € 21.

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– La scrittrice da scoprire
Louise Glück

«La severità e la precisione dei suoi versi trasformano un racconto individuale in esperienza universale». Con questa motivazione a Louise Glück, newyorkese, poetessa dalla voce intima e privata, è stato assegnato il Nobel per la Letteratura 2020.

Nata il 22 aprile 1943, Louise Glück ha pubblicato una dozzina di raccolte poetiche, da Firstborn (1968) a Faithful and Virtuous Night (2014). In italiano il Saggiatore ha pubblicato L’iris selvatico e Averno, seguirà l’opera completa.

Glück lavora fra grande mito e quotidiano. Parla di giardini, fiori, natura. Affronta le incrinature e le increspature dell’anima. Scrive da dentro il dolore, da una ferita che ha segnato la sua vita. E comunica serenità. Citando l’amata Emily Dickinson, diffida della vita pubblica considerandola «come il regno nel quale la generalizzazione cancella la precisione». Questa la sua forza, la forza di una voce nitida, esatta. Come un taglio di coltello.

Gian Luca Favetto


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– Continuo a rileggerlo
Ilaria Tuti e la storia di Forugh

«È poco conosciuto ma stupendo Canto di una donna libera di Jasmine Darznik (Piemme)» dice Ilaria Tuti, autrice di Luce nella notte (Longanesi).

«È il racconto in prima persona della più grande poetessa iraniana, Forugh Farrokhzad, morta a 33 anni nel 1967. Andata in sposa a 16 anni, diventata madre a 19, a 22 ha deciso di divorziare e rinunciare a tutto per conquistare la sua libertà, anche se questo significava essere una donna sola. Era audace già al tempo del regno dello Scià di Persia, parlava del desiderio femminile, di giardini bellissimi nascosti nelle case: un’immagine di quello che era la donna, magari amata ma sempre rinchiusa dentro a un recinto. Ne raccontava i sogni, gli afflati, il fuoco che c’era dentro di loro.Quando la Persia è diventata Iran, dopo la morte della poetessa i suoi libri sono stati messi all’indice, ma circolarono, in segreto, più di 1 milione di copie. Perché in fondo è sempre stata amatissima».


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– Donne che si sostengono
Laura e Alina, così diverse e così amiche

letto da Anna Scarano

La storia che racconta l’autrice messicana Guadalupe Nettel in La figlia unica mi accompagna ancora adesso, a distanza di tempo, ed è la storia di Laura e Alina, a cui si aggiungeranno Doris e il suo bambino. Le due protagoniste si sono conosciute a Parigi e nella capitale francese erano studentesse che immaginavano il futuro, un futuro da cui era esclusa l’idea di avere dei figli. Al rientro nel loro Paese le ritroviamo vicine, ma Alina nel frattempo ha incontrato Aurelio e ha cambiato idea: un figlio lo desidera e annuncia all’amica di essere incinta. Da qui, dalla reazione di Laura, il libro per me diventa bellissimo. Perché lei, che ha deciso di non essere madre, riesce a comprendere chi fa una scelta diversa e sarà capace di stare vicino all’amica e a sostenerla in una prova durissima, una gravidanza diversa da quella che si era immaginata.

Laura è l’amica che tutte vorremmo avere, basta a se stessa ma accoglie il mondo che la circonda, e lo fa attraverso l’osservazione e l’ascolto. Poi agisce, senza pretendere di risolvere situazioni complicate. Come quella di Doris e suo figlio Nicolás, i nuovi vicini di cui avverte la presenza all’inizio perché il bambino urla e si dispera. Entrerà nelle loro vite con semplici gesti, come un giro al parco o un gelato, e questo darà un senso diverso alle giornate di tutti. Laura scoprirà che non è poi così difficile entrare in sintonia con un bambino, Doris non sarà più sola mentre Alina, attraverso la piccola Ines che nasce e si aggrappa con forza alla vita, riuscirà a sentirsi madre dopo essere passata dall’apatia al rifiuto. Alla fine tutti, di fronte agli imprevisti, trovano il modo di reagire aiutati dall’amicizia e dall’amore che li lega.

C’è sempre un’opportunità per aprirsi al mondo, ci ricorda l’autrice. Sarà una coincidenza, ma ho una nuova vicina che non conosco e la figlia, che sento chiamare Gioia, piange sempre. Mi è venuta voglia di presentarmi. Laura di sicuro lo farebbe.

Guadalupe Nettel, La figlia unica (trad. di Federica Niola), La nuova frontiera, € 16,90.


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– La tesi
Non esiste una sola chiave per tutte le porte

Questa è la storia di un bambino americano che a 2 anni vince il suo primo torneo di golf e a 4 si allena per 8 ore al giorno. Ma è anche la storia di un bambino svizzero che si diverte a giocare a calcio, basket, badmiton, prima di scoprire che preferisce il tennis. Il primo si chiama Tiger Woods, il secondo Roger Federer: entrambi sono diventati campioni. Ma con una differenza.

Da qui parte il giornalista David Epstein in Generalisti (Luiss University Press) per chiedersi: e se il culto della specializzazione fosse sopravvalutato? Viviamo un’epoca in cui vige la “regola delle 10.000 ore” per diventare competenti, e quindi competitivi. Eppure – spiega l’autore raccontando, tra gli altri, di Keplero, Van Gogh, Duke Ellington – ciò che più ci aiuta ad affrontare la complessità dell’oggi e le sue sfide è allargare le conoscenze, sperimentare interessi diversi, mettere un piede fuori dal proprio mondo, flirtare con ogni possibilità ci si presenti. Perché non esiste un’unica chiave che apra tutte le porte.

Liliana di Donato


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– La citazione
«L’infelicità ha contorni molto precisi, diversi per ciascuno di noi»

Chi ha letto i suoi libri (Denti bianchi o Grand Union, per citarne 2) sa di cosa sia capace Zadie Smith: ogni frase, ogni personaggio nasce da una riflessione e dal suo guardare il mondo in maniera originale. La mente vaga, ma è un’impressione, perché l’affondo poi è lucido e potente.

Così è anche in Questa strana e incontenibile stagione (Sur, traduzione di Martina Testa), raccolta di 6 brevi saggi scritti dall’autrice inglese fra marzo e maggio 2020, in pieno lockdown e lotte antirazziste. Come al solito, l’autrice mescola impressioni, ricordi personali, idee e riflessioni. L’infelicità è il tema del quarto saggio. Nasce da un discorso origliato sulla metropolitana tra 2 donne. Ci sentiamo infelici perché non ci possiamo muovere, perché siamo chiusi in casa con il partner, perché non possiamo “creare”. Poi però c’è la sofferenza, quella vera: «La sofferenza non è relativa; è assoluta»

I.F.


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– Donne che si ribellano
Natsu, complicata e delicata come un origami

letto da Marina D’Incerti

Immaginate di ascoltare una soave ma penetrante voce femminile che fa esplodere in mille pezzi un bicchiere di cristallo. È l’effetto che mi ha fatto Seni e uova di Mieko Kavakami.

La voce è quella di Natsu, 30enne, aspirante scrittrice, povera e inconcludente. Ma anche donna delicata e complicata come un origami. Nella prima parte, la protagonista ospita per 3 giorni la sorella maggiore Makiko, ossessionata dall’idea di rifarsi il seno, e la nipote Midoriko, chiusa in un mutismo esasperante e rabbioso contro la madre e contro se stessa, 12enne a un passo dallo sviluppo.

Nella seconda parte, che si svolge a 8 anni di distanza, è la stessa Natsu alle prese con una fissazione: avere un figlio da sola, con la fecondazione eterologa. Conflitti emotivi ribollenti che vengono affrontati sempre durante l’afosa estate giapponese (Natsu vuol dire estate).

Attorno alla protagonista, ad arricchire la storia e a partecipare al flusso dei suoi pensieri, ci sono solo donne. La madre e la nonna, morte di tumore, di continuo evocate con struggimento, le amiche single, le madri sole.

Gli uomini sono figure lontane o, meglio, da tenere a distanza, per evitarne l’arroganza, la violenza, l’incapacità di capire. Condividere l’intimità fisica e mentale con i maschi è impossibile. È qui che la voce di Natsu e delle altre si fa dirompente. Vogliono essere donne a modo loro. Non è contro se stesse e il loro corpo che lottano, ma contro un’idea di femminilità sottomessa che rifiutano. La famiglia e la società giapponesi hanno ancora una tradizione molto maschilista e l’autrice la condanna scrivendo un romanzo feroce lontano dagli stereotipi del Sol Levante. Con un’eccezione che vi renderà la lettura piacevole. Niente geishe vestite di seta né città robotizzate. Però, nella vita fatta di niente di Natsu, nella sua casa minuscola, nelle conversazioni timide, nei gesti minimi dilatati dall’intensità delle emozioni, ritroverete infinita grazia ed eleganza.

Mieko Kawakami, Seni e uova (trad. di Gianluca Coci), edizioni e/o, € 19,50.


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– Segnalato da voi
Quanta bellezza c’è nella vita di ognuno

di Roberta Callea

Sono rimasta folgorata da questo libro e da questo autore dopo averlo ascoltato al Festival della Letteratura di Mantova, nel 2019, con un’amica. È un romanzo autobiografico, carico di autenticità, che è riuscito a farmi immergere in un vortice di emozioni contrastanti. In In tutto c’è stata bellezza (Guanda) Manuel Vilas ripercorre il vissuto della sua famiglia spagnola negli anni ’70, racconta gli sbagli fatti, le cose dette e anche quelle non dette,i ricordi belli. È diventato il mio libro speciale, mi è rimasto dentro per la delicatezza e la spontaneità, raccontando semplicemente la vita. E ricordandoci che, in fondo, in tutto c’è stata bellezza!


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– Da regalare
Agli amanti dei gialli

I gialli di Roberto Centazzo sono la conferma che per tenere il lettore incollato alla pagina non servono valanghe di morti, sangue ed effetti speciali. L’ombra della perduta felicità (Tea), quinta avventura degli ex poliziotti genovesi Santoro, Mignogna e Pammattone, si svolge tra il capoluogo ligure e Barolo, in Piemonte, dove i 3 si concedono qualche giorno in un agriturismo. Per staccare dalla monotonia, certo, ma anche per dare una mano al loro ex collega Giacomo, figlio della titolare, finito sotto procedimento disciplinare per le sue accuse a un pezzo grosso della procura.

La visita scoperchierà un intreccio di vite comuni portate al limite, di disagi diffusi che spesso non riconosciamo, di reati che condizionano le nostre vite da lontano. E la «squadra speciale minestrina in brodo», come si sono ironicamente battezzati i 3, proverà a riabilitare Giacomo e a restituirgli un po’ di fiducia nella giustizia, nella polizia e nella vita.

Gianluca Ferraris

A cura di Isabella Fava – hanno collaborato Liliana di Donato, Marina D’Incerti, Gian Luca Favetto, Gianluca Ferraris, Anna Scarano