A conferma del fatto che è «puntiglioso e magari un po’ rompiballe» come dice lui, è puntualissimo. Io, invece, in ritardo di un minuto. L’occasione è una diretta online per parlare di Fino a quando (Mondadori), il nuovo libro in cui Linus, 62 anni, per la prima volta si racconta senza filtri (se volete seguire la chiacchierata, la trovate sul profilo Instagram di Donna Moderna). Un romanzo semi-autobiografico in cui – con l’espediente narrativo del suo ultimo giorno in radio – apre ai lettori le porte dell’infanzia, del primo amore, dell’esordio da deejay, delle bocciature a scuola, delle cadute e delle risalite.
L’ultimo giorno in realtà è ancora lontano anche se, rivela lui, il libro l’ha scritto in un momento in cui era un po’ stressato: ogni mattina, da 29 anni, è al timone di Deejay chiama Italia, fra le trasmissioni più seguite nel Paese, mentre per il resto è al comando di un network che fa circa 5 milioni di ascoltatori ogni giorno. «Non credo di essere un personaggio così importante da avere una vera e propria biografia. Però la mia storia può essere utile come esempio per tanta gente che crede che soltanto i raccomandati ce la possono fare. Oppure che se non ce la fai al primo colpo è finita per sempre».
Il libro si intitola “Fino a quando” e immagina che quello sia il tuo ultimo giorno in via Massena, dove ha sede Radio Deejay
«Faccio le prove, ma credo che sia qualcosa che chiunque debba fare a un certo punto della sua carriera. Se dedichi tutta la tua vita a un’avventura professionale, devi anche cominciare a pensare che ci possa essere qualcos’altro. Non per forza la pensione. Anche se l’età potrebbe essere quella».
Un’avventura iniziata tanti anni fa
«I miei genitori erano di origine pugliese. Nel 1950 mio padre si trasferì a Perugia per lavoro, che detta così sembra che facesse l’industriale, invece era uno che cercava di sopravvivere. Nel 1953 si sposa con mia mamma, lì nasce mia sorella, poi io. Però il lavoro scarseggiava e così nel ’60 raggiungemmo il resto dei parenti a Paderno Dugnano, estrema periferia di Milano. Il destino ha voluto che Milano fosse la città delle radio e io mi ci sono trovato in pieno, nell’età giusta. A 17-18 anni era il momento perfetto per cominciare, e anche per rischiare. E io non avevo nulla da perdere. È stato un atto di follia e coraggio».
Ma anche di tenacia e talento
«Tenacia, soprattutto. Il talento credo sia certificato dal fatto che mio fratello sia Albertino. Fa parte del nostro Dna».
Grazie a queste qualità sei riuscito a fare una radio che si è subito contraddistinta dalle altre: alla musica hai affiancato le chiacchiere e un po’ di fatti personali
«È un espediente che usano tanti comici e intrattenitori: raccontare la propria vita per far sì che attraverso di essa la gente riveda la propria. È anche uno dei motivi per cui ho voluto scrivere questo libro: perché mi dispiace che le persone pensino che la mia vita è solamente quella di cui io parlo in radio, che fa sorridere. È importante capire che tutti noi che facciamo questo lavoro abbiamo un’esistenza parallela che non è sempre lustrini e luccichii. Io, per esempio, nel libro racconto di un momento, 10 anni fa, in cui sono stato per 2 anni fuori casa: è stata una cosa molto faticosa da sopportare per mia moglie e per i miei figli. Per fortuna si è concluso tutto bene e in radio non se n’è accorto nessuno».
Nel romanzo parli anche di cicatrici
«E sono tutte vere. La più piccola, la più invisibile, è anche quella che mi sono procurato quando da ragazzo facevo l’operaio. Di giorno lavoravo, alla sera cercavo di finire la scuola e in più c’era la radio. Questa piccola cicatrice serve sempre a ricordarmi che il lavoro è un’altra cosa. Poi ci sono le cicatrici che mi sono fatto giocando a calcio, andando in bicicletta, cadendo. Io sono uno che è caduto un sacco di volte, anche professionalmente. Ma sono campione del mondo di risalita».
Rimpianti?
«Non ne ho, perché vorrebbe dire che sono frustrato. Magari ci sono cose che avrei voluto fare o che avrei potuto fare. Per esempio, sono parte di una generazione che oggi rappresenta la televisione italiana. Sono cresciuto con Jerry Scotti, Fiorello, Jovanotti, Amadeus, che sono gli amici storici. Io sono rimasto “la radio” perché nel momento in cui avrei voluto e potuto cercare di passare alla tv come loro, sono diventato il direttore della mia emittente e questo mi ha talmente assorbito, e anche gratificato in tutti i sensi, che non ne ho più sentito il bisogno».
Hai già deciso cosa farai “da grande”?
«So che non mi annoierò perché sono uno che tende ad avere una grande curiosità e tanti interessi. Mi metterò finalmente a dipingere, una cosa che mi piace e che non trovo mai la pace per fare».