È moderna, elegante, raffinata, ma anche forte e soprattutto molto determinata a trasmettere a tutte le donne il suo messaggio riguardo a una maggiore consapevolezza su come vestiamo e ciò che indossiamo tutti i giorni. Livia Giuggioli Firth (forse il nome vi dice poco ma è la moglie dell’affascinante Premio Oscar per Il discorso del re Colin Firth) è la migliore testimone di come sulla moda e la sostenibilità si debba largamente riflettere.
Ed è per questo motivo che si è aggiudicata Le Grand Prix de l’héroïne Madame Figaro, più conosciuto come il Woman Madame Figaro Award: il premio della rivista francese che si tiene tutti gli anni dal 2006 e viene attribuito proprio alle “eroine moderne“. Partito come riconoscimento esclusivamente letterario, oggi viene assegnato a donne influenti e a talenti femminili che cercano di costruire una presenza di alto profilo nella società attraverso le scelte che compiono ogni giorno, ma anche attraverso le loro carriere, oppure solamente per la loro visione di un mondo più “consapevole”.
Livia Firth, 50 anni, italiana di nascita (è nata a Città della Pieve vicino a Perugia dove torna con il marito e i figli appena può) ma inglese d’adozione, è la donna che negli ultimi anni ha scosso di più il mondo del fashion e non solo a suon di buoni propositi ma anche di azioni concrete: grazie ad Eco-Age, un progetto nato ormai un decennio fa del quale oggi si occupa a tempo pieno in veste non solo di Founder ma anche di Creative director, traghetta le aziende da meri ideali verso strategie sostenibili. E pensare che quello interessato al tema della sostenibilità in famiglia era suo fratello Nicola. È stato lui a farla entrare nel mondo della consulenza specializzata e a trasmetterle l’importanza di un contributo attivo al cambiamento di una mentalità ormai superata.
Più che un’idea, quello di Livia è un vero e proprio stile di vita, ha spiegato recentemente al Telegraph: «Will I wear it a minimum of 30 times?», si chiede, e cioé «Lo indosserò almeno 30 volte?». È questa la domanda che si fa l’imprenditrice (e che dovremmo farci tutti noi) ogni volta che sta per acquistare un capo.
La svolta per lei è arrivata durante un viaggio nel 2008 in Bangladesh in una fabbrica tessile. «Al ritorno non ho potuto far finta di niente. Ci sono guardie che controllano chi esce e chi entra, sbarre alle finestre percui se c’è un incendio non ci si salva, le pause sono minime, se si resta a casa un giorno si perde il lavoro. Questa è schiavitù, un meccanismo diabolico, non possiamo nasconderci», racconta ancora al quotidiano britannico.
«Con il fast fashion siamo abituati a comprare e a buttare, ma la moda non è usa e getta. Sostenibilità significa anche pensare chi c’è dietro a quella T-shirt che compriamo per sfizio. Il fashion system è fatto di persone. Inoltre il settore del fashion ha un impatto incredibile, è la seconda industria al mondo più inquinante dopo quella petrolifera. Piuttosto di dire quali sono i posti migliori dove poter comprare in maniera sostenibile, dovremmo forse partire dal nostro guardaroba. La moda è diventata un manifesto femminista, il fatto che le donne consumino così a livelli assurdi, ha ripercussioni sulle altre che invece producono per noi».
Sulla scia di questo pensiero, dal 2017 ha preso il via il Green Carpet Fashion Awards, voluto proprio da Eco Age (che ora ha anche una sede a Milano) e da Livia Firth, e sostenuto dalla Camera della Moda e dal ministero dello Sviluppo Economico. L’obiettivo è quello di premiare i brand che si distinguono per l’utilizzo di codici etici nelle fasi di creazione, lavorazione e produzione.