Caro Lorenzo,
da quando ho lasciato il paese di mare in cui sono cresciuta per andare all’università, l’estate è cambiata. È cominciata sempre più tardi ed è finita sempre prima, come una specie di fiacchezza che invade il corpo per qualche settimana, senza picchi e senza sfoghi. Niente a che vedere con le estati sterminate dell’adolescenza, in cui ogni giorno era una scoperta, di sé e degli altri, e quella striscia risicata di spiaggia (ché eravamo in Liguria, mica sull’Adriatico), dove passavamo giornate sane, e le sere dopo cena, pareva un pianeta intero da esplorare: ogni giorno ne colonizzavamo una fetta, ogni giorno il pianeta ci metteva alla prova, e sopravvivere ci stupiva. Tu cantavi «Estate 1992, anno dell’Europa Unita» e io, che sull’Europa Unita avevo riempito quaderni e cartelloni di classe fin dalle elementari, mi sentivo totalmente una ragazza del mio tempo: stesa sulla sabbia senza ombrellone e senza crema, o arpionata alle spalle di un ragazzo per fare la lotta in acqua, stavo prendendo parte a un evento epocale. In agosto compirò 41 anni, ho imparato a usare la protezione 50, l’Europa boccheggia, ed essere una donna del mio tempo non mi fa più sentire euforica. Forse per questo quando ho saputo che avresti organizzato una colossale festa in diverse spiagge italiane ho sussultato neanche avessi preso la scossa. Mi sembrava un’idea folle, adolescenziale, chissà quanto mi avrebbe eccitata a 15 anni, ma con molta probabilità a 15 anni, confinata nel mio paesino, non avrei potuto esserci. Così, per rispetto della ragazzina che ero, il 16 luglio sono venuta in calzoncini di jeans a Cerveteri, e non credevo di incontrare tante donne incinte e papà con i figli piccoli e miei coetanei e ragazzini. Molti stavano lì dalle 3 del pomeriggio, e quando siamo arrivati, il mio compagno e io, dopo il lavoro, quasi un’ora di scooter, mezz’ora a piedi sotto il sole e mezz’ora di fila per il bagno, mi è parso di piombare in una festa già iniziata, appunto, dove tutti si erano già ambientati e io ero un pesce fuor d’acqua.
Le audiocassette e la T-shirt
L’ultima volta che avevo assistito a un tuo concerto avevo 19 anni, ero venuta a Firenze con gli amici, neppure avevamo prenotato un ostello per la notte, avevamo programmato un’unica tirata fino al primo treno del mattino, perciò non l’avevo detto ai miei, e forse è per la bugia, o per il ragù di funghi a pranzo, o perché Luna di città d’agosto mi ha sempre emozionata, che quando la canzone è partita dei crampi lancinanti mi hanno strizzato la pancia. Anche il primo concerto al quale ho partecipato era tuo. Avevo 13 anni, era appena stato catturato Totò Riina e dall’Ariston tu cantasti Alzando gli occhi al cielo di Carboni. Non la conoscevo, ma l’indomani mi feci duplicare l’audiocassetta dell’album che la conteneva. Non tornasti a Sanremo l’anno successivo, nemmeno con Carboni. Un giorno d’estate, mentre passeggiavo con le amiche sul lungomare, incrociai tre ragazzi villeggianti che non avevo mai visto. Il più alto indossava la T-shirt del vostro tour, per il quale sognavo un biglietto. Gli dissi: «Voglio la tua maglietta». Ero convinta di averne diritto, per la devozione con cui disegnavo a matita il tuo volto sul mio album Fabriano. Lui se la tolse e me la diede: fu così che diventammo amici. La infilai senza pensare che ci aveva sudato dentro, oppure sì, e quell’intimità immediata, insensata, mi faceva sentire parte di qualcosa, dell’universo dei tuoi fan, o dell’universo e basta.
I tatuaggi e i panini
Accade anche qui a Cerveteri; abbiamo steso un telo sulla sabbia per appoggiarci gli zaini e, poco dopo, altri asciugamani ci accerchiano, i miei sandali s’intrecciano alle ciabatte di una signora che balla scalza sul mio telo senza rendersene conto, e nemmeno m’infastidisco, io che di solito m’infastidisco per un nonnulla, ma di fronte a quelle persone che ridono bevendo birra, quelle bambine con le gambe secche e le code di cavallo che dondolano a ogni passo di danza, ho la pelle d’oca. E lo so che è ridicolo, ammetto che mi vergogno, ma per un nonnulla io posso infastidirmi, sì, o commuovermi. Non era quel che volevi farmi provare tu? Un senso di appartenenza, la condivisione di un rito laico che non prevede alcun sacrificio, però è catartico lo stesso. Quando la musica dance che metti sui piatti è troppo giovane perché la riconosca, mi siedo sul telo a fumare, e immagino una storia dietro ogni faccia, dietro le pance gonfie che slabbrano il cotone, lo smalto scuro sull’alluce valgo, i tatuaggi fino al polso, le teste calve, i bikini a fascia tirati su a ripetizione, i panini azzannati con foga dagli uomini e le pizze rosicchiate a minuscoli morsi dalle fidanzate, attente a non macchiarsi la camiciola bianca, i capelli sollevati col mollettone, i portafogli che sporgono imprudenti dalla tasca posteriore dei bermuda, i bambini che hanno sempre sete e si arrampicano sulle spalle come dovessero fare la lotta in acqua, come me a 14 anni, e da lassù sentirsi in mezzo a un evento epocale.
Il cuscino e la radio
Non ci avevo mai riflettuto fino a oggi, fino al Jova Beach Party di Cerveteri, ma ci sono un sacco di momenti della mia vita legati a te. La prima comunione: la mamma di una compagna di classe mi regalò un cuscino con la tua faccia stampata sopra, c’era scritto «È qui la festa?» Abbiamo dormito insieme per anni, tu e io. O l’Erasmus: non sai che cosa si scatenava nelle discoteche viennesi se dalle casse risuonava L’ombelico del mondo. Impazziva chiunque, soprattutto noi italiani. D’un tratto ci sentivamo a casa ed eravamo al contempo felici di essere distanti; tanto, la nostra casa era l’Europa intera, lo sapevamo fin dalle elementari. O quella sera che ero in auto col mio compagno e la radio mandò Le tasche piene di sassi. Era la prima volta che la ascoltavo. Dopo aver parcheggiato lui si girò a guardarmi e mi trovò in lacrime. Non riesco mai a cantarla perché al ritornello mi si chiude la gola, però mi piacerebbe che la facessi, magari col buio.
Invece sale sul palco un ospite. Oddio, è Gianni Morandi! Che sorpresa, non vedo l’ora di raccontarlo a mia madre! Più tardi, appena parte il primissimo colpo di batteria di Song 2, la spiaggia si trasforma nella Corte dei miracoli di Siena, dove ballavo assieme ai miei amici dell’università. Subito dopo, la chitarra elettrica attacca Smells Like Teen Spirit e, mentre urlo forte sulla voce di Kurt Cobain, me li sento tutti, questi 41 anni, queste 41 estati sempre più brevi, da un certo punto in avanti trascorse a studiare e a lavorare e a scrivere romanzi, senza rubare magliette agli sconosciuti, fare la lotta in acqua, colonizzare spiagge striminzite come fossero territori vergini. Tu ne compi 53 a settembre, un mese preciso dopo di me: a scuola scrivevo il tuo nome sulla lavagna, il giorno del tuo compleanno, tanto grande che i professori esitavano a cancellarlo, quasi fosse una scortesia. Da troppi anni non venivo a un tuo concerto e oggi che sono qui ripasso inaspettatamente un pezzo della mia storia, e mi accorgo che è nostra, tua e mia e di tutta questa variegata «tribù che balla». Fuori dalla nostra spiaggia l’Europa boccheggia, anzi naufraga, e io mi sento tradita, e disillusa, e disperata. Mi sento reduce, Lorenzo, o solo adulta. Ma continuo a saltare a piedi nudi sul mio telo, e anche se Le tasche piene di sassi non la fai, per un attimo m’investe ancora il primigenio stupore di essere sopravvissuta. Per un attimo ho davvero avuto l’impressione di prendere parte a un evento epocale.
Rosella Postorino, 41 anni, nel 2007 ha pubblicato il suo primo romanzo, La stanza di sopra (Feltrinelli). Con l’ultimo, Le assaggiatrici (Feltrinelli), ha vinto la 56esima edizione del premio Campiello nel 2018. L’autrice fa riferimento al Jova Beach Party 2019, un format di intrattenimento inventato da Lorenzo Jovanotti, che, dopo aver toccato varie località d’Italia, si chiuderà a Milano Linate il 21 settembre.