Un colpo di pistola che trapassa la testa da parte a parte, dalla tempia destra alla sinistra. La fine di Luigi Tenco, classe 1938 e componente a pieno titolo della scuola cantautorale genovese, si è consumata nel tempo dell’esplosione di un proiettile. Lo ritroveranno, poco dopo, il collega Lucio Dalla e la cantante italo-francese Dalida, con la quale aveva instaurato una relazione. Lo rimpiangeranno, molto a lungo, i compagni di viaggio con cui aveva mosso i primi passi nella musica leggera, fra cui Gino Paoli e Bruno Lauzi. Lo celebreranno, forse per sempre, schiere di fan e di interpreti contemporanei che non si stancano di riprenderne i brani. Nel 2017 saranno cinquant’anni dalla sua scomparsa, e noi vogliamo ricordarlo così.
Un’infanzia difficile e solitaria
Se si fosse trattato di un film, la macchina da presa si sarebbe mossa nella camera 217 dell’Hotel Savoy, uno dei più belli Sanremo. Naturalmente durante il Festival della Canzone, che all’epoca si teneva a gennaio. Peccato solo che tutto sia accaduto davvero. Ma chi era Luigi Tenco? E per quale motivo si spinse a tanto? Nei suoi neppure 29 anni di vita, l’artista aveva battuto un sentiero esistenziale in verità piuttosto accidentato, a partire dalle origini: la madre, già sposata e separata, era incappata in una gravidanza illegittima dopo un rapporto con il rampollo sedicenne della famiglia borghese presso la quale era impiegata come domestica, a Torino.
Allontanata dal posto di lavoro, la donna tornò nel paese di Cassine, di cui era originaria. Nel frattempo l’ex marito, Giuseppe Tenco, diede al figlio il suo cognome, secondo la legge del tempo, ma morì in un incidente ancor prima del parto. La ragazza si ritrovò quindi sola con il suo fardello, e un altro figlio nato precedentemente, in un luogo in cui tutti sapevano. Ma c’è di peggio: il giornalista e scrittore Aldo Colonna, nel suo Vita di Luigi Tenco appena uscito per Bompiani, scrive che un giorno, mentre Luigi bambino camminava solo, un anziano gli si avvicinò urlandogli «Bastardo!» e lasciandolo sgomento. Il piccolo sentì sempre la mancanza del padre, anche quando gli anni iniziarono a scorrere via veloci.
L’incontro con la musica… e con la censura
Il destino dell’artista subì uno scossone nel 1948, quando lui e la famiglia si trasferirono in Liguria, prima a Nervi e poi a Genova. Qui, con il tempo, Tenco fu investito dal soffio ricercato, dolce e un po’ acre, della scuola che in quella terra andava nascendo e che avrebbe inciso profondamente sulla musica leggera italiana. Già nel 1953, a quindici anni, l’artista fondò la sua prima band, d’ispirazione jazz e in cui suonava anche Lauzi. Durante tutti gli anni Cinquanta, le esperienze musicali si moltiplicarono: dai contatti con Fabrizio De André e Marcello Minerbi, all’ingresso nel gruppo I Diavoli del Rock, fino al trasferimento a Milano nel 1959 e alla partecipazione a diversi arrangiamenti di brani dell’etichetta Ricordi, anche per Gino Paoli e Ornella Vanoni.
Poi, nel 1961, ecco il primo disco da solista con il suo nome sulla copertina: I miei giorni perduti. Luigi Tenco, due parole, un’identità. Cominciò così il cammino verso la popolarità, specie con brani come Mi sono innamorato di te (1961), Lontano, lontano (1966) o Un giorno dopo l’altro (1966), che diventerà sigla de Il commissario Maigret con Gino Cervi. Il pubblico parve apprezzare le sue canzoni atipiche, sempre in bilico fra romanticismo e impegno sociale, spesso prive di ritornello, modernissime eppure intrise di malinconia. Ma nello stesso periodo si manifestarono anche i primi seri problemi con la censura, l’appunto più o meno velato di dimenticare troppo spesso i canoni della canzone tradizionale, il rimprovero di un eccesso di critica nei testi. Elementi che resero meno piacevoli i primi anni del successo, irti di delusioni e incomprensioni.
Sanremo e la tragica fine
Non stupisce che, come riferito successivamente da Fabrizio De André, il cantante fosse assai restio all’idea di partecipare al Festival della Canzone Italiana, autentico tempio di quel gusto popolare e autoindulgente che così poco gli si confaceva. Eppure, qualcosa lo convinse a prendere parte all’edizione del 1967. Al suo fianco compariva Dalida, grande interprete italo-francese già all’apice del successo, con la quale Tenco intratteneva una relazione amorosa dal 1965. I due, come regolamento dell’epoca, dovevano interpretare lo stesso brano: Ciao amore, ciao, tipico pezzo “tenchiano” capace di miscelare amore e critica sociale, attraverso la storia di un emigrante costretto a separarsi dalla fidanzata. La canzone non fu ammessa alla finale né ripescata dall’apposita commissione e l’autore, fin dal primo momento, reagì con rabbia e sconforto.
Il resto è noto. Anche se nel tempo non sono mancate le ipotesi alternative al suicidio, l’autopsia eseguita nel 2006 e un ulteriore supplemento d’indagine svoltosi nel 2016, fra l’altro su iniziativa della criminologa Roberta Bruzzone, hanno confermato la tesi iniziale. A colpire di più resta il biglietto che il cantante scrisse prima del sucidio: «[…] Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi». Quanti ragazzi di oggi si sentono altrettanto incompresi e rifiutati, non dal pubblico di una gara canora, ma da politici e società che negano loro qualunque possibilità di espressione?