Maggie Gyllenhaal regista di “La figlia oscura”
Lasciare la famiglia e i figli, per un altro amore o per la professione. È una scelta lacerante per chi la compie e ancor più per chi la subisce, ma lo sguardo sociale cambia se a farlo è un uomo o una donna. Se ad andarsene è lui, per quante critiche susciti, rientra nelle cose della vita che possono succedere, da sempre tollerate, anche accettate. Se invece a farlo è lei, la condanna del mondo è implacabile e la sua stessa identità rischia di andare in frantumi.
«Eppure non bisogna essere madri anaffettive o fuori di testa per riconoscere che anche il figlio più amato ci mette a dura prova, che ci sono momenti in cui sbatteresti la porta» dice Maggie Gyllenhaal, che ha voluto debuttare alla regia proprio raccontando il lato più buio e disturbante della vita femminile.
Il romanzo di Elena Ferrante: La figlia oscura
A spingere la 44enne attrice americana, volto di film d’autore (Uomini & donne, World Trade Center) e serie tv lodate dalla critica (The Honorable Woman, The Deuce), è stato un romanzo di Elena Ferrante: La figlia oscura, edito nel 2006 da e/o. Il film arriva nei cinema il 7 aprile dopo il passaggio agli Oscar con tre candidature (per la sceneggiatura di Maggie Gyllenhaal e per le attrici Olivia Colman e Jessie Buckley).
La figlia oscura, come un thriller psicologico
La figlia oscura ha l’atmosfera di un thriller psicologico: Leda, 50enne solitaria e misteriosa, in vacanza in Grecia, si ritrova a osservare la giovane mamma di una chiassosa famiglia (Dakota Johnson) e a rivivere gli anni in cui lei, brillante accademica, si sentiva incastrata nel matrimonio con due bambine da crescere. Nei flashback spunta anche un suo grande amore del passato interpretato da Peter Sarsgaard, che è il marito della regista Maggie Gyllenhaal e il padre delle sue figlie Ramona e Gloria Ray, di 15 e 9 anni.
Intervista a Maggie Gyllenhaal
Perché questa storia l’ha tanto colpita? «I romanzi della Ferrante hanno un impatto fortissimo perché mi fanno riflettere non solo sulla maternità ma sull’essere donna nel mondo. Senza storture, guardando in faccia la realtà. Quando ho iniziato a leggere La figlia oscura, ho pensato: “Questa donna è squilibrata!”. Dopo, però, l’ho sentita vicina e mi sono chiesta: “Allora sono squilibrata anch’io? Oppure queste emozioni ci toccano tutte ma nessuna ne parla perché sono scomode?”. Così ho sentito il bisogno di non stare a rimuginare da sola davanti al libro ma di portarlo sul grande schermo, perché altre possano condividere verità spesso non dette».
Il solo pensiero di trascurare i propri bambini per realizzarsi è un tabù per le donne. Del resto non è destabilizzante, da figli, immaginare madri che non si occupino di te? «Di certo è spaventoso, da piccoli, pensare che i genitori abbiano dubbi e frustrazioni, che siano sul punto di crollare. Credere che siano lì per loro, per soddisfare ogni bisogno, li fa sentire meno vulnerabili. Ma da adulti la visione cambia. Diventando genitore, scopri che è tutto diverso da quanto immaginavi. Che fa paura. Solo essere onesti con se stessi aiuta. Anche a usare la sofferenza per crescere».
La protagonista si definisce “madre snaturata”: un cliché da sfatare? «Di sicuro noi donne siamo rappresentate in maniera distorta. La pressione a essere perfette, amorevoli e dedite ai figli non aiuta ad accettare le tensioni e le contraddizioni della maternità. Come dice Leda, avere un figlio è una “responsabilità devastante”: può metterci in ginocchio, minare la vita di coppia e le nostre aspirazioni, farci sentire incastrate. Esserne consapevoli può essere disturbante ma anche rassicurante, ci fa capire che non siamo sole e neppure matte. Elena Ferrante ha molto insistito su questo punto: Leda non deve essere descritta come una pazza, bisogna mostrarne le emozioni perché scatti l’empatia».
Ha mai incontrato Elena Ferrante? «Nessuno conosce la sua identità, neanch’io, ma conservo gelosamente il nostro scambio di mail. Mi ha aiutata a sciogliere i dubbi sul mio debutto alla regia: sapeva che ero indecisa e ha posto il mio nome come condizione per concedere i diritti. L’ho preso come un segnale cosmico. Sempre lei mi ha spinto a fare mia la sua storia, a esprimermi liberamente attraverso il suo lavoro».
Anche appartenere a una grande famiglia del cinema – suo padre Stephen è regista, sua madre Naomi Foner sceneggiatrice, suo fratello Jake attore – l’ha spinta a diventare regista? «Penso di essere sempre stata una storyteller, solo che non mi ero mai concessa di seguire fino in fondo questa aspirazione. Girando la serie The Deuce – La via del porno mi sono battuta perché la protagonista Candy fosse una regista: perché so che per un artista raccontare una storia, più che un business, è questione di vita o di morte. Interpretando lei ho capito i miei desideri. Per il film ho scelto attori come me, che hanno un punto di vista e danno un contributo personale al racconto».
Non è stato difficile far interpretare a suo marito un grande amore della protagonista? «Avevo in mente lui fin dall’inizio, poi ho cambiato idea perché, confesso, mi disturbava vederlo girare una storia d’amore con un’attrice bella e talentuosa come Jessie Buckley. Poi un giorno mi sono come ribellata a me stessa. Mi sono detta: che timore da signora borghese! Stiamo insieme da 20 anni, so che mi ama, abbiamo due figlie e tante esperienze che ci legano… Perché privarmi dell’attore che considero migliore per quel ruolo?».
Mai pensato di interpretare lei il ruolo di Leda? «Sono felice di non averlo fatto perché ho avuto due attrici – Olivia Colman, Leda adulta, e Jessie Buckley, Leda giovane – sorprendenti. E complici. Con la mia stessa voglia di raccontare la femminilità in modo onesto, coraggioso, scomodo ma vero».