Che Malika Ayane sia rinata si percepisce dalle 11 canzoni che compongono il suo ultimo album, Malifesto. Che è, appunto, il manifesto del suo presente, dove parla di riscoperta, di leggerezza, di amore e di accettazione di sé, come ha fatto all’ultimo Festival di Sanremo con il brano Ti piaci così. Ma questa sua consapevolezza mi diventa evidente quando ci incontriamo nel suo appartamento in centro a Milano, un quarto piano che guarda i tramonti, dove l’atmosfera è intima e accogliente, ogni cosa al suo posto.
Mi apre la porta una donna di 37 anni che insegue ancora il piacere di fare musica (il primo contratto discografico, a 24 anni, lo ha festeggiato comprando i biglietti del concerto dei Radiohead), che vuole e sa investire energia nelle relazioni (dopo una separazione, un divorzio e un ex famoso, Cesare Cremonini, oggi sta con Claudio Fratini, il suo manager), che gestisce al proprio meglio i 16 anni della figlia Mia (anche se ammette di non saperle dire: «Arrangiati»).
Hai una casa bellissima.
«Ci sono entrata all’inizio di giugno, l’anno scorso, ho preparato tutto il trasloco durante il primo lockdown. È il luogo della genesi del mio nuovo album, nato dal cambiamento».
«La finestra della mia nuova casa si affaccia su un locale dove facevo la cameriera. Immaginavo il giorno in cui avrei raccontato che, prima di cantare, servivo ai tavoli»
Un cambiamento anche personale?
«Ho messo i pezzi della mia vita in un posto nuovo. Mi è passata la “rogna”, il dover essere sempre all’altezza. Mi sento più bella e ho capito che non è poi così male essere me stessa. Ho smesso di avere paura e mi si è aperto un mondo. Non ero sicura che avrei fatto un nuovo disco, ma guardare fuori da questa nuova finestra, in un periodo così strano, mi ha fatto reimpossessare del mio orizzonte dopo molto tempo».
E nell’orizzonte cosa hai visto?
«Le possibilità».
Pensavi che non avresti più cantato?
«Ho avuto paura di non avere niente più da dire, perché in questo ultimo anno, come tutti, sono stata chiusa in casa, in un tempo sempre uguale a se stesso. Ho cercato di tamponare le mie ferite, di contenere i danni cercando di scavare dentro di me, a differenza di quello che ero abituata a fare fin da adolescente, quando scappavo appena mi serviva. Oggi ho smesso di scappare».
Da cosa scappavi?
«Dai miei dubbi, che forse erano solo legati al momento in cui mi trovavo. Il muro di Berlino è caduto quando avevo 5 anni, ho imparato subito il concetto di libertà, sono cresciuta pensando di poter andare ovunque. I miei genitori erano hippie, mia madre negli anni ’70 ha lasciato la realtà in cui stava stretta. Io sono sempre stata libera e non avere più la completa gestione della mia vita durante la pandemia mi ha annichilita. Invece, entrata in studio, ho lavorato in modo diverso. Ho buttato fuori tutte le riflessioni fatte e, anche se non avevo vissuto come ero sempre stata abituata, ho scoperto di avere tantissimo da dire».
Figlia di hippie, tu hai messo radici per tua figlia.
«La mia scelta di esserci e di darle quello che non io ho potuto avere si trasforma in un eccesso di attenzioni. Sono capace girare tutta la città per cercarle quello che le serve per una festa con le sue amiche. Mia mamma faceva anche 3 lavori, se serviva, pur di mandarmi al Conservatorio, ma non sapeva nulla di quello che facevo. Andavo a dormire da un’amica, poi stavo in giro 4 giorni e lei si fidava. Non dico che avrei voluto una famiglia più presente, ma rimpiango che mia mamma non abbia potuto godersi il ruolo di un genitore che può vivere tutto con sua figlia, anche perché oggi è la migliore nonna che io conosca, attenta e premurosa. Mia e le sue amiche adorano andare a mangiare la pizza da lei. Eppure, quando parliamo, mi rendo conto che ha la consapevolezza di essersi persa qualcosa nel rapporto con me, in passato, e vedo quel senso di colpa inevitabile per ogni madre».
Il tuo senso di colpa?
«Essere mancata alla consegna delle pagelle di Mia, quando andava alle elementari, perché ero a Sanremo. Meno male che la sua maestra non me l’ha mai fatto pesare, un’altra mi avrebbe fatto sentire la peggiore delle madri. Mi sono protetta da quel senso di colpa pensando che un figlio che vede la mamma soddisfatta diventa più forte, impara ad aspirare a realizzare i propri obiettivi».
Sei diventata mamma giovanissima, a 21 anni.
«Quando è nata Mia, portavo i capelli rasati da un lato e mi scambiavano per la tata. Dal giorno in cui ho partorito, gli occhi degli altri mi hanno “attaccato” il pregiudizio di non essere all’altezza, perché troppo giovane, ma me ne sono discretamente fregata. Ho preso la maturità durante il suo primo anno di vita, poi ho studiato Filosofia, e mia figlia è stata bravissima, mi ha permesso di gestire il tempo e mi ha concesso di poter crescere con lei, prendendo comunque il meglio di me perché abbiamo vissuto per molto tempo in simbiosi. A prescindere da tutto quello che c’è stato prima, oggi finalmente l’età che ho corrisponde a quello che sento e a quello che vivo».
Oggi che mamma sei, quindi?
«Abbiamo così pochi anni di differenza che da una parte sono quella che le permette di divertirsi con le amiche, dall’altra sono quella che suscita un po’ di timore perché so esattamente cosa potrebbero combinare… È una dicotomia divertente».
Ti rivedi in lei?
«Mi sono iscritta al Conservatorio alla fine della scuola elementare, avevo 10 anni. Non ho mai dato alla mia vocazione il peso della missione ma sapevo che cantare era l’unica cosa che potevo fare. È sempre stato il mio modo di manifestare il fatto che ero viva. La grande fortuna di Mia è che cambia idea 75 volte alla settimana su quello che vuole fare da grande: io ne sono felice perché significa che si sente libera di esplorare. Mi dispiace solo che, da oltre un anno, si trovi a dover vivere l’adolescenza chiusa in un appartamento».
In cosa siete simili?
«Nell’urgenza dell’espressione di sé, e nelle “seghe mentali”».
Di cosa ha paura?
«Di un sacco di cose, però sta crescendo. Forse ha paura di sua madre che ha paura pensandola in giro da sola!».
E tu, hai paura di stare da sola? Canti di un “per sempre” che non esiste.
«L’amore è travolgente, passionale, ma poi finisce. Credo a un “per sempre” relativo, all’importanza di amarsi ogni giorno, ho molto rispetto del mutare delle cose».
In Come sarà, che fa parte del tuo nuovo disco, dici: «E se ti va di giorno potresti anche sognare». Cosa significa?
«Fantasticare è l’inizio della realizzazione di qualcosa. Io lo faccio continuamente. Questa finestra si affaccia su un locale dove lavoravo come cameriera. Mi avevano dato un’orrenda maglietta blu elettrico, mi pagavano poco, ma lì potevo cantare 2 canzoni ogni sera. E immaginavo il giorno in cui avrei raccontato in un’intervista che, prima di diventare cantante, servivo ai tavoli. Ogni giorno da quassù mi ricordo che i sogni si realizzano».
La vita di Malika Ayane in musica
Malika Ayane inizia a cantare a 11 anni nel coro di voci bianche del Teatro alla Scala di Milano. Dopo il primo album, del 2008, partecipa a 5 Festival di Sanremo vincendo 2 volte il Premio della critica Mia Martini. Malifesto (Sugar, sopra la cover) è il suo sesto album.