Marco Mengoni torna al Festival di Sanremo con Due Vite, un brano emozionante che parla del dialogo interiore che spesso si affronta, quando il sogno si scontra con il reale, suonando come un omaggio a Lucio Dalla.
Marco Mengoni torna a Sanremo 10 anni dopo la vittoria
A dieci anni di distanza dalla sua vittoria sul palco dell’Ariston con L’Essenziale fa un piccolo bilancio della sua carriera, costellata da quel giorno di traguardi importanti. Sette album, il prossimo in arrivo a chiudere la trilogia Materia, 68 dischi di platino, tour, 1,8 miliardi di stream, canzoni prime in radio e soprattutto un primo tour negli stadi che la prossima estate raddoppia.
Il cantautore di Ronciglione incontra la stampa in una Bocciofila di Milano, per raccontare le sue emozioni e tutto quello che sta preparando per la settimana del Festival, partendo da Lido Mengoni, un luogo di ritrovo sul mare, dove accogliere dal mattino alla sera ospiti e colleghi, per jam session improvvisate e chiacchiere, e continuando con il podcast quotidiano con Fabio de Luigi “Caffè con Limone”, disponibile su tutte le piattaforme. A sottolineare che lo spirito con cui affronta questa nuova sfida è di condivisione, senza spazio per le ansie. Let it Be, il brano dei Beatles scelto per la serata dei duetti con il Kingdom Choir in fondo parla anche di questo. Lasciare andare, per accogliere quello che di nuovo verrà.
Chi glielo ha fatto fare di tornare a Sanremo?
«La verità è che me lo ha fatto fare Marco Mengoni, perché alla fine è lui che si prende la briga di mettersi in competizione con se stesso. Sanremo per me è questo, tornare dopo dieci anni e mettermi alla prova avendo vissuto cose enormi nel frattempo. È una sfida. Salire su quel palco e vedere come ci si emoziona e come sono cambiate le cose. Poi certo anche il mio team e Amadeus. E forse la canzone stessa».
Sente la pressione?
«Ho fatto tutto, stadi, dischi che sono andati bene, sono un fortunato, forse è proprio per questo che ci posso andare, con meno pressione. Tanto gli stadi li faccio comunque. Sono in un anno fortunato, il prossimo disco che uscirà prima del tour mi piace molto. A prescindere dai risultati io sono felice».
Le piace il cast di questa edizione?
«Moltissimo. È un arcobaleno infinito di colori differenti. Sono su quel palco con amici, con persone e artisti con i quali ho collaborato o con i quali parlo molto spesso».
Tornare dopo essere stato super ospite che effetto le fa?
«È come quando finisci un tour e vai a vedere altri concerti, ti torna subito la voglia di suonare. Andare come ospite a Sanremo è bellissimo, però senti che non stai facendo davvero parte di quella cosa. L’anno scorso mi era venuto il pensiero di tornare in gara, ma ho pensato che non sarebbe mai successo. Invece eccomi qua. In questi ultimi anni il Festival è cresciuto sempre di più e ho la sensazione che la competizione non conti, ovviamente formalmente c’è, lo spettacolo è costruito in questo modo. Ma io non sento la gara. Mi stanno accollando il ruolo di primo della classe, ma non ci bado. Penso, come credo tutti, che l’unica cosa importante sia fare bella figura. Voglio fare bene».
Una volta però lo ha vinto, sarà stato bello…
«Sono contentissimo di avere quel leoncino e quella palma, ma non ho velleità di vittoria, spero di divertirmi, lo pretendo da me. Sono molto contento di tutto quello che è successo. Della posizione mi interessa relativamente. La canzone parla del mio percorso psicologico ed emotivo, di quello che mi sta succedendo in questi anni. E la storia infinita di un rapporto tra ratio e inconscio».
Qual è quindi “l’essenziale” per lei, ora?
«Divertirmi. Non inteso come andare a fare festa, ma divertirmi nel fare le cose, rifletterci meno. Pensarci il giusto».
Pensa troppo?
«Sono un over thinker, penso sempre e comunque, non vedo mai la cosa per quello che è ma cerco tutto quello che è dietro o che non è visibile, da sempre. Sono sicuramente cresciuto e i sette anni di analisi mi hanno aiutato a mettere a fuoco, a essere più consapevole. Ci sono esperienze che mi hanno fatto cambiare e forse vedo il mondo dando un peso diverso alle cose, rispetto a prima».
Perché ha scelto Let it be per la serate dei duetti?
«Non è una canzone, è un inno, è qualcosa di grande. Non ha limiti e non ha tempo, qualsiasi musicista avrebbe voluto scriverlo. Porta un messaggio universale del lasciare andare, scollarsi di dosso tutto quello che era ieri, e riportarlo nel domani. Mi dà idea di essere qualcosa di corale. Ed è anche per questo che ho scelto di duettare con un coro. Sono molto felice di farlo insieme al Kingdom Choir perché sostenere da solo un pezzo del genere sarebbe impossibile».
Cosa la emoziona?
«La semplicità, più di ogni altra cosa. Le cose inaspettate. E sono davvero poche. Non so se è per come sono o per come sono cresciuto, ma non mi sconvolgono tante cose nella vita. E forse è anche perché ho vissuto una vita piena di esperienze forti… Non ci sono molte cose che mi emozionano, ma quando succede, rimango segnato».
Avrebbe mai immaginato questa vita?
«Non mi aspettavo quello che poi è successo, ogni volta che si parla di Sanremo mi collego al 2013, e mi viene in mente il 2012, un anno particolarmente strano. Stavano succedendo tantissime cose nella mia vita, nel 2009 avevo fatto X Factor, nel 2010 il primo Sanremo. Stavo sperimentando e capendo se continuare o no il mestiere della musica. Nel 2012 avevo messo in dubbio il mio futuro. Sarei tornato sui passi dell’università. Ma poi è arrivato quel Sanremo dove io e la mia manager Marta Donà arrivammo soli, poche persone sostenevano Marco in quel momento. Ci facevamo forza un po’ a vicenda. Quella vittoria arrivò come uno schiaffo in faccia a dirmi che potevo fare e dire qualcosa. Quello che è successo dopo, togliendo il fatto che tutti quelli che non credevano più in Marco Mengoni avevano ripreso a darmi pacche sulle spalle, tutto quello che è successo dopo è stato un bel viaggio (si commuove ndr).»