Come è possibile che a 10 anni dalla sua morte tutti, non solo gli appassionati di motociclismo, parliamo ancora di Marco Simoncelli? Cosa simboleggia? Chi è stato per noi? Perché guarderemo il documentario su di lui, intitolato Sic, come il suo soprannome? Rispondere a queste domande significa fare un viaggio dentro la sua storia, che ha intercettato quella di tutti, di chi lo ha solo visto e sentito in tv e di chi ha pure avuto la fortuna di conoscerlo, come me.

Badate bene, parlare di Marco Simoncelli senza ammiccare alla lacrima è difficile. Ma Sic, al cinema il 28 e 29 dicembre, ci riesce perché non si focalizza sulla sua morte ma sulla vittoria al Mondiale del 2008, 3 anni prima della tragedia. E perché tutti i coinvolti, da Valentino Rossi a babbo Paolo, dagli altri piloti al suo manager, ci fanno ridere. Fa ridere la sua fidanzata Kate, per esempio, quando svela che Marco – per bullarsi con i suoi amici – raccontò che avevano fatto l’amore in mare, vicino alla boa, quando non era vero. Niente malinconia, ma tanto amore e tanta leggerezza. E se Marco ci arrivava così tanto nel cuore, non solo da non dimenticarcene ma anche da diventare un simbolo, promotore di attività benefiche, nome di una squadra corse della Moto3 – la MotoGp dei giovanissimi – e di una fondazione che finanzia opere di bene e costruisce case per disabili, è proprio per questa caratteristica qui: la leggerezza.

Un’immagine del documentario Sic, prodotto da Sky, Mowe e Freemantle, al cinema il 28 e 29 dicembr
Un’immagine del documentario Sic, prodotto da Sky, Mowe e Freemantle, al cinema il 28 e 29 dicembre.

La prima volta che l’ho visto eravamo in una balera, l’avevamo convocato lì per un servizio fotografico che sarebbe stato pubblicato sul mensile Riders. Era proprio il 2008 e quel Mondiale nella categoria 250 ancora non l’aveva vinto. Anzi, era in un momento di difficoltà. Ma il suo atteggiamento e quel testone di riccioli ramati avevano già conquistato noi addetti del settore. Non c’era parcheggio, doveva spostare la sua auto, quindi salii in macchina con lui. Per poggiare i piedi sul tappetino fui costretto a farmi spazio tra tutte le bottiglie dell’acqua vuote che c’erano per terra. Ne bevi tanta? chiesi. «No» rispose. «Ma non butto mai via le bottiglie».

La prima risata che mi ha fatto fare non me la dimenticherò mai e la racconterò sempre o ogni qual volta che ce ne sarà l’occasione. Ne sono seguite centinaia di altre perché da quel giorno l’ho conosciuto sempre un poco di più, un pezzo alla volta. Il secondo servizio che realizzai con Marco Simoncelli fu per una cover story. Sempre 2008, oramai il Mondiale lo aveva praticamente vinto. Fu uno shooting incredibile, ne è rimasta testimonianza solo in un video su YouTube: costringemmo Sic a ore e ore di trucco e parrucco e lo facemmo diventare prima calvo, poi rasta, poi liscio, infine punk con la cresta. Restammo insieme tutto il giorno e poi, per finire le interviste, passai diversi giorni con la sua famiglia e il suo team. Venni a sapere tante piccole cose su di lui. Senza andare a rileggere quegli articoli alcune mi sono sempre rimaste in testa.

Mi colpì il fatto che Marco e sua sorella spesso dormissero ancora con i genitori e che la mattina, da sotto le lenzuola, facessero a gara a chi scendeva prima dal letto, come due bambini. Mi colpì che, spesso, la notte prima della gara lui la trascorresse ancora con suo padre. Mi colpì tutta la dimensione familiare, l’allegro casino in cui mi immergevo quando andavo nel loro camper parcheggiato nel paddock. Mi colpirono la semplicità e l’umiltà di tutte le persone che facevano parte della sua vita. Mi colpirono i valori che trasmettevano, l’affetto che si dedicavano, l’unione che dimostravano. Tanto che Alessia Filippi, regista di Sic, ha dichiarato: «Conoscere il padre di Marco è stato come conoscere lui perché insieme hanno fatto tutto». È vero. Osservandoli, vivendoli, più di una volta ho pensato che avrei voluto costruire anche io una famiglia così, che pure io avrei voluto un figlio con il quale dormire insieme anche quando sarebbe stato grande, senza che lui se ne vergognasse. Nel 2010, poi, padre di un bambino lo sono diventato davvero.


Marco Simoncelli correva in moto a 300 all’ora ma trasmetteva leggerezza. C’è chi fa yoga, chi prega, chi fa beneficenza: ognuno costruisce un percorso per arrivare in quella condizione da dove Marco già partiva


Quel tragico 23 ottobre del 2011

E nel 2011, quel 23 ottobre, quando Marco Simoncelli è stato investito nel Gp di Malesia, mio figlio era accanto a me e dormiva nella culla. E mentre io urlavo «Noooo» lui ha sussultato. Un’altra di quelle cose che non mi scorderò mai. Dopo quell’incidente Paolo Simoncelli e mamma Rossella non l’ho più visti né sentiti per un po’. Stavo male solo al pensiero di contattarli. Stavo male io, intendo.

Ho rivisto Paolo molto tempo dopo, sono passato da Coriano e l’ho chiamato. Un giro veloce nel museo dedicato a Marco, poche parole, e andò bene così, non serviva altro. Ho rivisto anche Rossella poco fa, quando andai a pranzo da loro per parlare di un libro sul campione, un libro che alla fine non ho scritto. Mai, in nessuna di queste occasioni, ho avuto la lucidità di dire loro una cosa che ho capito scrivendo questo articolo. Non gliel’ho mai detto, quindi, ma lo scrivo adesso: voi, Paolo, Rossella, e ci metto dentro anche Marco e la sorella Martina (che non ho mai più visto né sentito), mi avete aiutato a capire che persona e padre essere. Ci ho messo del tempo a diventarlo ma alla fine credo di esserci arrivato.

Una persona sincera, limpida e leggera

E credo che sia qui il motivo per cui 10 anni dopo sto ancora battendo i tasti di un computer per scrivere del Sic o del perché qualcuno abbia voluto realizzare e produrre un film su di lui (che dovete guardare anche se non ve ne frega niente delle moto): Marco era ciò che chiunque di noi vorrebbe diventare. Una persona sincera, limpida e comunque vincente, anzi vincente proprio perché sincera e limpida. Proprio perché leggera. Sembra facile riuscirci ma è la cosa più difficile che esista. C’è chi fa yoga, chi prega, chi diventa buddhista, chi fa beneficenza, ognuno a modo suo si costruisce il proprio personale percorso per arrivare in quella condizione da dove Marco, nella sua ingenuità, nel suo essere naïf, partiva. E no, non puoi non apprezzare e non volere bene a ciò che vuoi diventare. Ed è per questo che ci piace ancora oggi parlare e sentire parlare di una persona che in qualche maniera rappresenta la parte migliore di noi: Marco Simoncelli.

Moreno Pisto, l’autore di questo articolo, è direttore di MOW – mowmag.com