Non c’è pace per chi ha successo. Appena arrivata in Italia la serie Netflix su Marie Kondo si è scatenato il putiferio. Da guru del riordino a truffatrice – seppur dolce, il passo è breve. D’altra parte se hai già venduto milioni di libri in tutto il mondo e poi ti sei “venduta” pure a una serie tv, alla fine sei solo un bluff. Una che fa soldi vendendo aria fritta. In poche parole, se sei Marie Kondo e hai già fatto il botto, poi non puoi sperare di farne un altro. Perché alla fine non hai inventato niente, insegni alla gente – con problemi non solo di spazio, ma spesso di coppia – a piegare il pigiama e a impilare i piatti. Bella scoperta. Come non averci pensato prima. Però guarda caso, c’ha pensato prima lei di te. Lei c’ha fatto i soldi e tu no. In più se ti chiami Marie Kondo e sei giapponese, non la puoi passare liscia. Il Giappone è troppo di moda in questo periodo e parlarne, a qualunque costo, dando l’impressione di averci capito qualcosa fa molto figo. E allora che fare? Che notizia trovare? L’unica notizia possibile è che se prima sei diventata una guru perché dicevi delle cose, non resta che darti addosso perché dici le stesse cose. Mica altre.
Lette le critiche sulla serie Netflix un po’ dappertutto, dai post su Facebook agli articoli, mi sono incuriosita e sono andata a guardare la serie. Un solo episodio, per carità, quello della famiglia Friend, mi è bastato per cadere addormentata sul divano dopo venti minuti. L’episodio è lento. Marie Kondo è Marie Kondo. Coerente con quello che ha scritto (“Il magico potere del riordino“, Vallardi 2014), che ho pure recensito, e che l’ha fatta diventare famosa nel mondo. Marie Kondo, insomma, non dice e non fa niente di più di quello che fa da anni: riordina le case. La vita della gente? E allora dove sta il problema?
Perché la serie tv non funziona
Il primo problema è che alla serie della Kondo su Netflix manca il ritmo. È noiosa: vedere gente che piega il pigiama e sacchi neri pieni di spazzatura dopo un po’ annoia. Se avessero costruito sulla Kondo un personaggio tipo la maestrina che spiega il suo metodo con lezioni teoriche sul metodo Konmari, forse sarebbe stato più efficace e divertente. Oltretutto le ha proprio il phisique du role per farlo! In più, ma sarebbe meglio dire, soprattutto, nella serie manca un passaggio fondamentale, l’anello che fa transitare i contenuti di una cultura verso un’altra perché di fatto nessuno capisce perché Marie Kondo faccia quello che fa e perché lo faccia in quel modo. La serie su Marie Kondo avrebbe potuto essere un’occasione per raccontare un mondo, quello del Giappone. Se si fosse creata una cornice per aiutare lo spettatore a mettersi nei panni della Kondo a capire quello che dice, a capire cosa sia il Konmari, il suo metodo, il cerchio si sarebbe chiuso. Così invece rimane sospeso e ognuno ci vede quello che vuole. Guardando la serie sulla Kondo, purtroppo, non impariamo ad avere occhi nuovi. Ma sempre gli stessi che vedono sempre le stesse cose. Ho davvero sorriso quando ho letto le interpretazioni del Konmari “all’ombra del femminismo in fiore”, in cui le protagoniste sarebbero donne pronte a chinare la testa a mariti egoisti, i veri colpevoli della loro infelicità. Così mentre la Kondo cerca di trasmettere il messaggio che riordinare la casa sia un modo per tornare a interrogare se stessi, la gente capisce il contrario. Che la ragione della propria infelicità è l’altro. Possibilmente quello che di più caro hai vicino, cioè tuo marito. Di più: la riflessione in alcuni casi si è spinta oltre e a essere tacciate di essere matti, insieme alla Kondo, sono anche le coppie che le chiedono aiuto. Pensa te. A me invece fanno tenerezza. Perché una coppia in crisi che le prova tutte, anche il Konmari, pur di non perdersi, per me andrebbe candidata all’oscar della vita di coppia.
La radice spirituale del metodo di Marie
Qualcuno intuisce vagamente che dietro gli originali atteggiamenti della Kondo ci siano elementi “spirituali” non ben indentificati, tipo degli Ufo culturali. Così, per salvare la faccia, spara due righe sul “relativismo culturale” e si sente a posto. Già. Però se il relativismo culturale non lo riempi di qualcosa, non relativizza niente. Ma questo non è importante. L’importante è sparare a zero. Su come si veste, su quanto è matta quando tocca i libri per svegliarli, di quanto sia poco credibile quando cerca il punto giusto per ringraziare la casa. Solo che, se si fosse almeno avuta la buona creanza di aprire il suo libro, non dico leggerlo tutto, ma si fosse almeno sfogliato l’indice, si sarebbe notato che a pagina 226 c’è un capitolo intitolato proprio “Salutate mai la vostra casa?” dove la Kondo spiega il perché faccia così. In questo capitolo la Kondo accenna a quella che è una chiave di lettura di tutto il suo metodo. Questa chiave di lettura è l’elemento fondante della cultura giapponese, lo shintoismo. Difficile definire in due parole lo shintoismo, diciamo però che per lo shintoismo ogni cosa – non solo gli oggetti naturali come le pietre o gli alberi, ma tutti gli oggetti, anche un rossetto, ad esempio – sono emanazioni della divinità e che per questo vanno amati e rispettati. Il Giappone è shintoista. L’Imperatore, simbolo della nazione, è a capo dello shintoismo. La parola “armonia” che tanto usiamo quando parliamo di Giappone e l’appiccichiamo come un adesivo luccicante alle arti giapponesi, è solo questo: l’armonia dell’uomo nell’universo. In questo caso nel proprio universo, dunque in casa sua. Ecco perché Marie Kondo ringrazia la casa. Ecco perché Marie Kondo ringrazia un calzino prima di gettarlo via. Ecco perché Marie Kondo non è matta. È solo giapponese.
Salutate mai la vostra casa?
Leggendo le critiche di questi giorni alla Kondo mi torna in mente un episodio che successe quando, con il mio ex-marito che è giapponese, traslocammo. Preparammo tutto, scatole, scatoloni e così via e poi portammo le nostre cose nella nuova casa. Avevamo lasciato l’appartamento vecchio in ordine ma ad un certo punto lui mi disse: “Vado a pulire di là”. Lo guardai un po’ stranita e gli chiesi: “Ma è già tutto qui. Abbiamo lasciato l’appartamento a posto, non c’è più niente lì”. Lui non mi ascoltò, salì in macchina e partì. Dopo un po’, vedendo che non tornava, andai a vedere che fine avesse fatto. Lo trovai nella vecchia casa, intento a dare lo straccio per terra. “Sei ancora qui”, gli dissi sorpresa. “Dai andiamo via che abbiamo un sacco di cose da fare!”, insistetti spazientita. Lui alzò la testa, mi guardò e mi rispose così: “Noi giapponesi amiamo le piccole cose. Io pulisco l’appartamento per ringraziarlo del tempo che abbiamo trascorso qui, per essere stato con noi tutto questo tempo. Se non capisci questo, del Giappone non capirai mai niente”. Ci misi qualche momento a realizzare cosa avesse detto, poi mi misi ad aiutarlo, e iniziai a strofinare per terra anche io. Quando l’appartamento fu lindo come non era mai stato, lui si mise sulla soglia e disse una preghiera per quel posto che ci era stato così caro. Mi unii anche io a quel momento solenne. Solo allora mio marito fu pronto a chiudere la porta e a dirgli addio.