La lunga gonna nera sfiora le ciabatte che sbatacchiano sul parquet. «Sono di 3 numeri più grandi del mio» dice Marina Abramovic fermandosi. Ne sfila una e me la mostra ridendo. «C’è scritto “Fuck negativity”, al diavolo la negatività. È così facile oggi farsi prendere dal pessimismo». E io che temevo mi fissasse negli occhi senza dire una parola, come ha fatto nel 2010 con le 750.000 persone che a turno si sono sedute di fronte a lei al MoMa di New York. Grazie a quella esibizione, intitolata The Artist is present, la signora della performance art è diventata una star planetaria. «La mia arte è immateriale: non ci sono dipinti o sculture, solo emozioni» spiega con voce magnetica. «All’inizio degli anni ’70, dopo varie sperimentazioni, ho capito che il mio strumento espressivo era il corpo. Allora ho deciso di esporre me stessa, con le mie debolezze, in modo che gli spettatori si riconoscessero in me. Perché abbiamo tutti la stessa paura della morte e della sofferenza».
«Porto in scena il dolore per dimostrare che possiamo liberarcene»
Mentre la osservo mi vengono in mente i momenti più intensi della sua carriera. Di fronte al pubblico, Marina Abramovic si è tagliuzzata il ventre con una lametta, si è fatta puntare una pistola carica alla tempia, ha gridato fino a perdere coscienza. Spasmi del corpo, ma anche dell’anima. «Nel quotidiano detesto il dolore» precisa. «Lo porto in scena per dimostrare che possiamo liberarcene, a patto di non temerlo. Quando stiamo male, anziché fermarci a metà, dobbiamo sprofondare nella disperazione. Lasciare che ci attraversi e avere fiducia nella nostra capacità di guarigione. Fino ad accettare perfino la morte, di cui oggi nessuno vuole parlare». Parliamone. «A novembre compio 71 anni, so che la fine si avvicina e dunque non perdo tempo. Evito di guardarmi indietro, perché mi fa sentire vecchia». In verità, negli ultimi mesi ha fatto spesso i conti con il passato.
A febbraio a Stoccolma ha esordito The Cleaner, retrospettiva di 50 anni di carriera che comprende anche i primi dipinti («sono orribili, ma metterli in mostra mi è servito per ripulire la memoria» ) e che debutterà a Palazzo Strozzi, a Firenze, a settembre del 2018. A novembre aveva pubblicato l’autobiografia Attraversare i muri (Bompiani). Un titolo che aiuta a capirla: «Sono cresciuta a Belgrado, nella Jugoslavia di Tito, dove i veri comunisti dovevano sopportare di tutto. I miei genitori erano membri del partito. Mia madre, direttrice del Museo della Rivoluzione e Arte, non voleva neppure l’anestesia quando doveva farsi estrarre un dente. Mi ha istruita a suon di botte, libri e pennelli». Ma la forza che Marina Abramovic emana va oltre l’educazione militare. Mi spiega da dove arriva: «Sono stata nei monasteri e nei deserti per studiare lo sciamanesimo e le filosofie orientali. Grazie a quelle esperienze durante ogni performance entro in trance: il mio corpo è una scatola che riceve un flusso ininterrotto di energie. Posso stare lì per ore, capace di ogni cosa, senza mai allontanarmi con la mente. È questa la presenza che il pubblico sente».
«Non ho mai voluto figli: la carriera era più importante»
Entra, con due bicchieri di acqua ghiacciata, uno dei suoi collaboratori: il più vecchio non arriva a 40 anni. La mattina presto vengono nell’elegante appartamento di Manhattan in cui l’artista vive. Lavorano, cucinano, scherzano. Lei riesce a meditare anche in mezzo a questo baccano? «Sì, ma non lo faccio con regolarità» sorride. «Vado a periodi, come con l’alimentazione. A volte mangio di tutto e mi abbuffo di cioccolato, però 6 mesi prima di ogni performance seguo una dieta vegetariana. Mi piace vivere con i miei ragazzi, come in una famiglia. È ai giovani che oggi si rivolge la mia arte. Il mio obiettivo è portarne 100.000 in uno stadio per insegnare l’Abramovic Method, una serie di esercizi mediati dalla mia esperienza, per aiutarli a chiedersi: “Che cosa vuole la vita da me?”». Lei quando ha trovato la risposta? «Conoscevo il mio destino fin da bambina» dice senza esitazioni. «Ho sempre messo la carriera davanti a tutto, come ogni donna dovrebbe fare. Me ne sono fregata di chi diceva che avrebbero dovuto chiudermi in manicomio per le mie performance. O di quelli che mi hanno massacrata quando ho raccontato dei 3 aborti. La verità è che non ho mai voluto figli perché, se fossi diventata madre, non sarei mai stata una grande artista».
«Nella mia vita non c’è spazio per la privacy»
Non faccio in tempo ad aprire bocca che m’interrompe. «Adesso le faccio io una domanda: che cosa l’ha colpita di me?». Più di tutto la trasparenza, vorrei risponderle. Ma per la seconda volta Marina Abramovic mi anticipa. «La mia vita è una performance in cui non c’è spazio per la privacy. Non voglio segreti, perché solo così sono libera» dice alzandosi. «Mi segua. La porto negli unici spazi in cui mi ritaglio un po’ di intimità». Entriamo nella camera da letto, nel bagno e nel guardaroba che straborda di abiti neri. «Molti sono regali di amici stilisti. Quando li ho indossati, i giornali hanno scritto che mi ero venduta al mondo della moda» conclude con un pizzico di irritazione che però scompare presto. «Sa qual è la verità? Ogni società è destinata a scomparire insieme ai suoi moralismi. Mentre una grande opera d’arte possiede tante vite. Resta per sempre».
4 lavori cult di Marina Abramovic da conoscere
Rhythm 10 (1973) Ispirandosi a un vecchio gioco russo, l’artista appoggia la mano aperta a terra e con un coltello e tira fendenti negli spazi tra le dita. Ogni volta che si ferisce, cambia lama.
The Lovers: The Great Walk Wall (1988) Quando, dopo 12 anni, la storia d’amore tra Marina Abramovic e l’artista tedesco Ulay finisce, i due partono a piedi dagli estremi opposti della Grande Muraglia cinese. E a metà strada si incontrano per dirsi addio.
Balkan Baroque (1997) Per 3 giorni la performer pulisce con una spugna una montagna di ossa animali. Una metafora che denuncia gli orrori della guerra nell’ex Jugoslavia e le fa vincere il Leone D’Oro alla Biennale d’Arte di Venezia.
The Artist is Present (2010) Per 3 mesi resta seduta 7 ore al giorno senza bere, mangiare, usare la toilette. A turno gli spettatori si mettono di fronte a lei, occhi negli occhi. Molti escono in lacrime. Quando arriva Ulay è Marina a commuoversi.