«Sono diventato grande da piccolo, quando un virus mi costrinse a chiudermi in casa con una persona che detestavo». Inizia così “C’era una volta adesso” (Longanesi), il nuovo romanzo di Massimo Gramellini, vicedirettore del Corriere della Sera e volto di Rai 3, dove ora conduce Le parole della settimana. Il virus è quello di questa pandemia, mentre il piccolo che diventa grande è Mattia, 9 anni. Gramellini lo immagina anziano, nel 2080, mentre ripercorre la sua infanzia e quella strana primavera in cui anche il suo, di mondo, si è ribaltato. Siamo a Milano, in un appartamento affacciato su un cortile, con Mattia e la sua strampalata famiglia: la mamma Tania, insegnante di ginnastica soprannominata T’ansia perché «bastava un colpo di tosse di uno dei suoi figli per mandarla in affanno»; il fidanzato di lei, Zeno Zorzi, Doppia Zeta, per via del cognome e della “zeppola” di cui soffre; la sorella adolescente Rossana, «il ramo solido della famiglia»; nonna Gemma, «l’unica persona pressoché normale, se non si fosse assegnata il compito di ingozzarmi di pastasciutte». E poi, lui: il padre tanto detestato perché andato via di casa e con il quale, per colpa del lockdown che gli impedisce di tornare a Roma dalla nuova fidanzata, Mattia si ritrova a condividere vita e spazi. Una storia che ha il passo della favola per affrontare e quello che per molti ha il sapore del dolore. E che, per scelta dello scrittore, ha uno stile delicato e pieno di speranza.
Perché ha voluto un bambino come protagonista? «L’idea mi è venuta guardando a marzo in tv una ragazzina che diceva: “Mia nonna mi racconta sempre della guerra, ora finalmente avrò anch’io qualcosa da raccontare ai miei nipoti. E così ho pensato: se prendo un 9enne di oggi e lo faccio diventare un signore di 70 che scrive il ricordo di quella primavera milanese della sua infanzia in cui c’era la pandemia? Lo sguardo del bambino consente il gioco e la poesia, il filtro della fantasia lo rende invincibile rispetto a noi adulti che invece siamo macerati dall’ansia e dalla paura».
In questo gioco è fondamentale il rapporto col papà. «Andrei, eterno adolescente con una collezione sterminata di fumetti e la voglia costante di scherzare, diventa adulto grazie al figlio. E Mattia, che è più adulto di lui e lo guarda un po’ dall’alto in basso, diventa bambino stando col padre. È uno scambio. All’inizio si detestano però sono costretti a vivere insieme perché Andrei è tornato a Milano per divorziare, ma proprio il giorno in cui arriva chiudono i tribunali e nella notte scatta il lockdown. Così inizia una lenta e faticosa riconquista del figlio e della casa. I capitoli hanno come titolo nomi di stanze e di luoghi del condominio perché per il padre ogni stanza è come una battaglia: deve riprendersi il terreno perduto».
Lei ha avuto un figlio da poco. Nel rapporto tra Andrei e Mattia c’è qualcosa di autobiografico? «Be’ sa, avere in casa un bambino di 8 anni, che è il primo figlio di mia moglie Simona (la scrittrice Simona Sparaco, ndr), con cui ho un rapporto meraviglioso, e ora anche Tommaso che ne quasi 2, ti fa essere più attento alle piccole cose. In “Fai bei sogni”, che era assolutamente autobiografico, c’era la mia famiglia vera. Questa volta ho costruito la famiglia che non ho avuto: ho sempre desiderato avere una sorella maggiore, sono figlio unico, e un padre che fosse il contrario del mio, che era all’antica, severo, manteneva le distanze. Ho creato così un papà improbabile, un po’ cialtrone però molto simpatico, e con la straordinaria capacità di trasformare la vita in magia. Un po’ come il Benigni di La vita è bella».
Un mondo parallelo quindi. «Io non sono per le storie dove i personaggi non mutano mai. A me piacciono quelle dove, a un certo punto, sotto pressione, magari tirano fuori una parte di sé che non pensavano di avere. Il lockdown è stato un grande esperimento sociale, un Grande Fratello dove però non ci sono le nomination, non puoi mandare via nessuno. Al contrario, eravamo tutti chiusi dentro. Il 2020 è stato un anno importante, non solo orribile, formativo per chi ne ha saputo approfittare. Ho raccontato quello che è successo in tantissime famiglie scegliendone una in cui i lettori potessero riconoscersi. In cui succedono le cose che abbiamo vissuto tutti: dalle penne lisce, che era l’unica pasta che si trovava a marzo nei supermercati di Milano, alle autocertificazioni. C’è tanta realtà, ma filtrata dagli occhi incantati di un bambino».
C’è anche il dolore. La madre a un certo punto dice: «È sempre esistito ed esisterà sempre». «Io ho avuto un dolore molto forte da bambino (la madre di Gramellini è morta quando lui aveva 9 anni, come racconta in “Fai bei sogni”, ndr), ma tutti abbiamo affrontato dei traumi. Dipende da come li attraversi. Di fronte a una enorme buca che si presenta ai tuoi piedi puoi paralizzarti per la paura e fare un passo indietro oppure girarci intorno per superarla. La vita è un insieme di prove. Una parte di noi la desidera tranquilla, però sappiamo benissimo che così sarebbe sprecata. Una vita tranquilla, dove non succede mai niente, che vita è? Una noia mortale perché non scopri niente di te. In fondo aveva ragione Vasco Rossi quando cantava “Voglio una vita spericolata”».
Lei cosa ha fatto durante il lockdown di marzo? «All’inizio sono stato in auto-quarantena. Tornavo a Roma da Milano dove avevo girato Le parole della settimana e per sicurezza mi sono trasferito nello studiolo sotto casa, dove c’è un divano letto. Simona mi portava da mangiare e vedevo i bambini dalla finestra. Il primo giorno ero triste poi ho cominciato a passare il tempo con le serie tv. Ho guardato gli episodi di Il trono di spade che avevo perso, La verità sul caso Harry Quebert di cui avevo letto il libro e lo sceneggiato del 1967 dei Promessi sposi. Quando dopo 15 giorni Simona è venuta a dirmi “Da oggi puoi tornare su”, e la vedevo provata perché aveva dovuto prendersi cura da sola dei bambini, ho avuto la tentazione di allungare la quarantena perché stavo come un pascià» (ride, ndr).
Alla fine del libro c’è un grazie particolare a Simona, anche lei scrittrice. «L’idea del libro è nata insieme: io le ho parlato della ragazzina vista in tv e lei mi ha consigliato di mettere il papà separato che veniva a Milano. Avremmo potuto firmarlo in coppia se lei non avesse avuto un altro romanzo in uscita (“Dimmi che non può finire”, ndr). È una scrittrice più brava di me e mi ha aiutato tantissimo a costruire la storia, oltre a essere stata di ispirazione e sostegno quotidiano: il grosso del libro l’ho scritto durante le vacanze, che in pratica non abbiamo fatto. Questo lockdown è stato anche per noi una prova. Viviamo insieme da 5 anni, ma chiusi in casa con 2 bambini scatenati poteva succedere di tutto, invece non abbiamo litigato mai. Ci siamo accorti che sotto pressione andiamo d’accordo».
Ora In libreria: “C’era una volta adesso” (Longanesi)
È un romanzo di formazione, e una storia di famiglia, ai tempi del Covid.
Di famiglia Massimo Gramellini aveva già scritto in “Fai bei sogni” (2012), in cui parlava della morte della madre, e in “Prima che tu venga al mondo” (2019), dove raccontava l’attesa per la nascita del figlio.