Matteo Berrettini ci ha portati in un mondo dove non eravamo mai stati: un posto dove gli altri ci rispettano e ci invidiano, e vorrebbero assomigliarci. Prima il tennis ci compativa: vivevamo in difesa, mai una volta all’attacco, anche quelle poche volte che vincevamo era per sfinimento. Gli artisti della racchetta, da Nicola Pietrangeli ad Adriano Panatta, li avevamo relegati nei ricordi, magnifiche eccezioni ormai consumate dall’uso.
Matteo Berrettini, il campione che piace a tutti
Poi è arrivato Matteo Berrettini, 25 anni da Roma, che serve a oltre 200 chilometri orari, tira il diritto sulle righe, vince sul cemento veloce e sull’erba. Piace a tutti. Anche a quelli che lo hanno scoperto soltanto una domenica di luglio, quando era già da tempo fra i primi 10 tennisti del mondo. Sono stati quasi 5 milioni gli italiani che in tv hanno visto Matteo sfidare nella finale di Wimbledon il padrone del tennis, Novak Djokovic, senza mai sentirsi battuto. Rimontando, lottando, sorridendo. Mostrando al mondo come si fa a perdere: «Questa non è la fine, è un inizio». Una promessa. Una dichiarazione d’amore.
L’amore c’entra parecchio in questa storia. A partire da quello dei suoi genitori, che si sono conosciuti in Sicilia, d’estate, nel villaggio turistico dove Luca Berrettini faceva il maestro di tennis e Fiorello l’animatore. Claudia era andata lì in vacanza, tornò innamorata. Lucone e Claudiona, li chiama lui. In principio prendevano le ferie per portarlo ai tornei, andavano tutti in camper così ci stavano anche Jacopo, che ha 2 anni in meno di Matteo, e Yannick, il cane, chiamato così in onore di Noah, altro artista della racchetta. «La cosa che davvero mi piace è quando un bambino mi dice: “Guardo tutti i tuoi match, vorrei essere Berrettini”» racconta. «Ma io vorrei che pensasse che sono qualcosa di più, che bisogna lottare sempre per quello che si vuole, che i sogni si possono realizzare. Se posso essere di ispirazione per un bambino ogni settimana avrò fatto un grande lavoro».
Bello ma possibile, educato, rispettoso, capace di sfoderare un inglese perfetto sull’erba più famosa del mondo, il giorno dopo la finale Berrettini si è presentato al Quirinale e a Palazzo Chigi insieme ai calciatori che avevano vinto gli Europei. Elegantissimo, i riccioli scuri per una volta non intrappolati dal cappellino da baseball che porta in campo, sembrava 007 alla fine del film, quando finalmente ha sconfitto la Spectre e conquistato tutte le donne che ha incontrato sulla strada. Nelle foto sta ancora sorridendo.
Eppure Matteo non è sempre stato così. Al suo circolo di bambino, al Foro Italico, lo chiamavano tutti “Mister no”, dalla prima risposta che dava d’istinto. Era uno di quelli che parlano molto in campo, che quando sbagliano si arrabbiano col destino. Ma quando Vincenzo Santopadre gli ha mostrato come cambiare, lui lo ha fatto: «L’ho messo davanti a uno specchio». Ecco perché è il suo allenatore da 14 anni: «Gli ho insegnato a diventare il coach di se stesso». Stefano Massari, il suo mental coach, rivela che Matteo in campo cerca un senso, non soltanto colpi vincenti: «È capace di scavare dentro di sé finché non trova il cielo».
La storia con Ajla
Quando lo trova, non molla tanto facilmente. Ajla Tomljanovic l’ha incontrata 2 anni fa a Wimbledon. L’ha corteggiata con costanza. Adesso la prende in giro con dolcezza, ma bisognerebbe vedere come soffre in tribuna quando lei gioca per capire quanto siano legati. Qualche volta si allenano insieme, e questa condivisione totale è insieme un vantaggio e una trappola: chi fa il tuo stesso lavoro capisce al volo tempi, modi e meccanismi, poi però è più facile portarsi l’ufficio a casa, anche se l’ufficio è un campo da tennis. «Io ho il servizio e il diritto, Ajla può scegliere fra tutti i colpi» ammette Matteo con cavalleria.
Anche lei, nata in Croazia ma con passaporto australiano, ha raggiunto il suo miglior risultato a Wimbledon, i quarti di finale. Il lockdown li ha uniti moltissimo: la bolla richiesta dalla pandemia è stata una prima occasione di vivere insieme, a Boca Raton, in Florida. «Abbiamo litigato, come tutti. Anche a Wimbledon abbiamo litigato» confida Berrettini. Poi fanno pace. Quando discutono, lui si mette a parlare in italiano. Dietro c’è un po’ di strategia, visto che Ajla ha ammesso che quando Matteo parla in inglese da zero a 10 le piace 8, ma quando parla in italiano le piace 10: «È molto più sexy e romantico, ecco perché sto imparando l’italiano anch’io». Il lunedì prima dell’inizio del torneo sono andati a fare una passeggiata a Notting Hill. «Qui hanno girato il film nostro film preferito» ha detto Ajla, quello con Hugh Grant e Julia Roberts, e si capiva che Matteo non era molto contento, figuriamoci, lui che ama Christopher Nolan e Stanley Kubrick, Quentin Tarantino e Sergio Leone. Ma Ajla non ha detto proprio una bugia, se è vero che il cartone preferito del piccolo Matteo era Lilli e il Vagabondo. Più romantico di così…
Non pensava di essere bravo. E ritrovarsi al centro dell’attenzione lo mette a disagio: «Ma non perderò la testa, non ho fatto tutto questo per un po’ di successo»
Claudia, la mamma, lo chiama Spugna: perché è molto attento e nota tutto, «si accorge perfino quando cambio il colore dello smalto». A scuola andava bene anche senza studiare troppo, e quando era in casa passava ore da solo a mettere insieme i pezzi. Letteralmente. «Lego, puzzle, è affascinato da tutto quello che bisogna incastrare, costruire». Legge moltissimo, ultimamente Herman Hesse ma anche Bukowski ed Hemingway. E scrive, come gli ha insegnato nonna Lucia. «Le prof delle medie dicevano che scrivevo male, quella del liceo che scrivevo bene. Cerco di mettere in parole quello che provo, pensieri, riflessioni, cose mie. E mi rileggo a distanza di tempo per vedere come si è evoluto il processo».
Romantico e fascinoso, con un fisico da superatleta
Fedele, sensibile, romantico, fascinoso come un attore del cinema, con un fisico da superatleta (1 metro e 96 di altezza per 95 chili di muscoli), Matteo non era un predestinato: ha lavorato molto per ottenere questi risultati. Non pensava di essere bravo, era addirittura passato al judo, è stato suo fratello a riportarlo sulla strada del tennis: «Da piccoli di finali come quella di Wimbledon ne abbiamo giocate tantissime, io e lui: in salotto, senza pallina, mimavamo un grande successo».
Ma, adesso che è arrivata, questa attenzione improvvisa lo mette a disagio: «È come se non pensassi di meritare tanti complimenti». La verità è che non gli piace stare sotto i riflettori: preferisce chiudersi nel suo mondo allargato, fatto di famiglia e amici che sono sempre quelli da una vita. «Non perderò la testa, non ho fatto tutto questo per un po’ di successo, io non vivo così».