Veneto doc ma con un’aria esotica, sguardo corrucciato e voce profonda, il 37enne Matteo Martari ha tutta l’aria di uno che i cuori li spezza, anche se nella nuova fiction di cui è protagonista li aggiusta. In Cuori, appunto, su Rai1 la domenica sera, è Alberto Ferraris, un giovane chirurgo, pupillo del primario delle Molinette di Torino e fondatore del primo reparto di cardiochirurgia italiano (interpretato da Daniele Pecci). Un ruolo per cui «ho imparato a dare davvero i punti di sutura, perché in una scena siamo inquadrati mentre ricuciamo il paziente» rivela. «Chissà, è un’abilità che potrebbe tornarmi utile, un giorno…».
Suture a parte, come ti sei sei preparato al ruolo?
«Studiando il modo formale in cui alla fine degli anni ’60, quando è ambientata la serie, ci si rapportava agli altri: la postura, il linguaggio. Lavoro sempre molto sul corpo, sulla fisicità dei miei personaggi. A volte tutto parte dal cappello o dalle scarpe: con quelle addosso immagino la camminata, il modo di gesticolare… Un tempo ci si salutava togliendo il cappello, si stava più dritti, la distanza tra le persone era maggiore. È un lavoro che inizia subito, discutendo con il regista, che dà poi indicazioni per i costumi».
Per la precedente serie di cui sei stato protagonista, L’Alligatore, ora su RaiPlay, so che ti sei letto tutti i libri di Massimo Carlotto, che l’hanno ispirata.
«Sì, mi piace studiare prima di andare sul set. Se vai in scena e sei impreparato, è un peccato per te e una mancanza di rispetto nei confronti dei colleghi. Nel mondo dello spettacolo, e non solo, non vai da nessuna parte se non collabori con gli altri».
Fai ancora i provini o adesso ti scelgono solo per il curriculum?
«Li faccio ancora, eccome, l’ultimo ieri. E ogni volta mi agito tantissimo. Il più duro finora è stato quello per L’Alligatore: è durato 3 ore e mezza, dovevo superare situazioni create apposta per mettermi a disagio. Ma, proprio per le sue difficoltà, è stato quello che mi ha dato maggiore soddisfazione».
Che rapporto hai con la fama? Per strada ti chiedono selfie o autografi?
«Non spessissimo. Però quando mi riconoscono e mi fermano mi fa piacere perché, a differenza del teatro dove hai un rapporto diretto con il pubblico, con la tv non sai cosa pensano i telespettatori della tua interpretazione. Io sono felice che il mio lavoro serva a distrarre le persone, a regalare loro due ore senza le pesantezze della vita: sentirmi ringraziare è emozionante».
Però a volte le persone ti scambiano per i tuoi personaggi o sbaglio?
«Sì (ride, ndr). La mattina dopo la messa in onda di una puntata di A un passo dal cielo ero in un bar di Milano. Un signore si era messo a fissarmi, così gli ho chiesto se gli servisse qualcosa. E lui, pieno di disprezzo, ha replicato: “Dovresti essere in carcere”. Io ci ho messo un po’ a capire cosa intendesse, anche perchè alle 7 meno un quarto è dura carburare… Ma poi l’ho tranquillizzato: “Guardi che non sono davvero il capo di una setta, è solo il mio personaggio!”».
Hai sempre voluto fare l’attore?
«A sentire quello che mi ha raccontato mia madre, sì. Da piccolo, durante l’estate, io e un altro bambino scrivevamo sceneggiature e mettevamo in scena spettacolini cui i nostri genitori erano obbligati ad assistere. E mia mamma dice che le recite di fine anno delle elementari erano l’unica cosa in cui mi impegnassi a scuola!» (ride, ndr).
Ma poi hai fatto altri mestieri prima di iniziare la carriera di attore…
«Per studiare recitazione bisogna permetterselo, e io non avevo i mezzi: già mentre frequentavo la scuola alberghiera a Verona lavoravo in un forno e come cameriere. Pensa che la scuola offriva anche un corso di teatro, ma non ho potuto seguirlo perché ogni sera ero impegnato. Questo ha forse tolto un po’ di leggerezza alla mia giovinezza, ma mi ha formato il carattere. E poi ho imparato a fare cose che possono tornare utili anche quando recito».
Sei bravo in cucina? Durante il lockdown hai panificato come tutti?
«No, l’ho fatto troppo prima (ride ancora, ndr). Però me la cavo bene in cucina, la mia carbonara ha passato l’esame di romani doc».
Per mantenerti hai fatto anche il modello.
«Un modo di guadagnare anche quello, ma ricordo quel periodo con gratitudine: mi ha consentito di girare il mondo, pagarmi la scuola, imparare lingue straniere. Non sono un modaiolo, però: il mio stile è improntato a semplicità e comodità, niente di troppo ricercato né costoso. Non ho un bel rapporto con il lusso, non ci trovo la mia dimensione».
Che effetto ti fai quando ti rivedi sullo schermo?
«Cerco di guardarmi il meno possibile perché mi fisso su quello che potevo far meglio. E mi disturba risentire la mia voce, non mi piace».
Invece è seducente. Mi confessi un tuo “vero” difetto?
«Sono molto competitivo, con me stesso e con gli altri. Ci tengo a vincere perfino a carte o a biliardino: quando con i miei amici giochiamo dopo cena io la vivo come se fosse la finale dei Mondiali!».