Michael J. Fox e il
La spalla sinistra che inizia a far male, il mignolo della mano che si contrae senza un perché. È il 1991: Michael J. Fox non ha ancora compiuto 30 anni ed è all’apice della carriera grazie al successo della trilogia di Ritorno al futuro. Va dal medico, la diagnosi è di quelle che ti stravolgono la vita: Parkinson. Lo shock, inevitabile. Un periodo di depressione, lungo. Poi, pian piano, con coraggio e determinazione Michael J. Fox decide di reagire, di affrontare la malattia, di coltivare l’ottimismo.
«Il Parkinson mi ha salvato la vita: prima bevevo e vivevo a 100 all’ora, ma dopo la diagnosi ho deciso di cambiare. Sono diventato un padre, un marito e una persona migliore» ha dichiarato l’attore canadese, oggi 60 anni, da 34 sposato con l’attrice Tracy Pollan, conosciuta sul set della serie Casa Keaton, dalla quale ha avuto 4 figli. Adesso racconta il suo percorso in Il futuro è stato bellissimo – Considerazioni di un ottimista sulla mortalità (Tea), la sua quarta autobiografia in uscita il 5 maggio.
Michael J. Fox: le foto
Intervista a Michael J. Fox
Aveva già dato alle stampe tre memoir. Cosa l’ha spinta a mettere di nuovo su carta i pensieri? «Dentro di me c’era spazio per un altro libro, ma a differenza degli altri questo era più… Nervoso, diciamo. Nel corso degli ultimi tre decenni ho fatto pace con il Parkinson: lo considero un ospite che a poco a poco si prende un po’ più di spazio, mentre tu cerchi di adattarti».
Le è pesato scrivere? «Non riesco a farlo, perciò ho registrato appunti vocali e li ho dettati alla mia manager Nina, che li ha trascritti. Abbiamo fatto molte riunioni su Zoom durante la pandemia, ricordo che io me ne stavo seduto sotto il portico di casa accanto al mio cane Gus».
L’ottimismo è il risultato di un percorso durante il quale ti rendi conto di avere qualcosa di cui essere grato.
Nel 2018 ha scoperto anche un tumore benigno alla spina dorsale. «Mi dissero che era necessario operare perché altrimenti sarei rimasto paralizzato in breve tempo, ma nessuno voleva farlo per paura di farmi del male. Alla fine il mio medico di famiglia mi ha tranquillizzato dicendomi che se ne sarebbe occupato lui. Dopo l’intervento ci sono voluti 4 mesi per imparare a camminare di nuovo. Poi, un giorno che ero a casa da solo, sono scivolato in cucina e mi sono rotto il braccio. Mentre ero steso sul pavimento in attesa che arrivasse l’ambulanza, ho provato a sorridere di ciò che era appena successo, ma non ci riuscivo».
L’ottimismo che l’ha sempre contraddistinta stava svanendo? «Ho iniziato a metterlo in discussione. Avevo ripetuto alle persone che soffrono del mio stesso male che andrà tutto bene, che devono alzare la testa. Avevo mentito? Chi sono io per vendere speranza agli altri? La verità è che le cose non vanno sempre bene e, talvolta, le situazioni peggiorano. Non mi reputo un guru, quando condivido le mie esperienze non cerco di dare agli altri regole da seguire».
Cosa l’ha aiutata, nei momenti di crisi? «L’ottimismo è il risultato di un percorso e di una disciplina. Credo che la speranza possa sopravvivere solo se abbiamo qualcosa per cui essere grati: la famiglia, il lavoro che ci piace, cose semplici come l’aver trovato l’asilo nido giusto per i bambini. E così ho pensato a mia moglie e ai miei figli, che sono tutti più alti, belli e intelligenti di me, al mio cane, ai miei amici. Tenere presente quanta vita abbiamo ci permette di andare avanti».
Ha detto che il libro è una lettera d’amore a sua moglie. «Il nostro primogenito Sam è nato all’inizio del matrimonio, perciò Tracy ha messo in pausa la carriera. Eravamo sposati da poco quando ho ricevuto la diagnosi: iniziai a bere di più, non stavo bene. Non sapevamo nulla della malattia, né di quanto in fretta sarebbe degenerata, ma Tracy ha detto che sarebbe rimasta al mio fianco. E ha mantenuto la promessa. Nel 1993 ho smesso di bere e questo mi ha aiutato a vedere le cose con maggiore chiarezza: ho iniziato ad accettare la mia situazione e a convivere col Parkinson».
Perché ha atteso 7 anni prima di rendere pubblico il suo stato di salute? «Temevo che, se i fan avessero scoperto che ero malato, non avrebbero più riso alle mie battute. E invece, quando ho deciso di aprirmi, le persone sono state di enorme supporto: non solo hanno continuato ad apprezzare il mio lavoro, ma hanno continuato a ridere».
A 40 anni si è ritirato dalle scene e ha creato la Michael J. Fox Foundation, con cui ha raccolto oltre 1 miliardo di dollari per la ricerca. Di cosa va maggiormente fiero? «Quando, da giovane, ho lasciato il Canada volevo costruirmi una carriera a Hollywood, non avevo idea che avrei trascorso il resto della vita a cercare una cura per il Parkinson. Vogliamo trovare un modo di identificare la malattia prima che compaiano i sintomi. Il lavoro della fondazione ha portato a terapie che hanno migliorato le condizioni di vita di molti: se oggi mi sento più a mio agio nel mio corpo, è anche merito delle cure che abbiamo aiutato a sviluppare».
A 57 anni si è tatuato una tartaruga marina sul braccio. Ha un significato speciale? «Alla fine del 1999 ero in un momento di transizione: volevo lasciare la serie Spin City e dare il via alla fondazione, ma faticavo a decidermi. La notte di Capodanno andai a fare una nuotata e, tra le alghe, comparve una tartaruga: aveva una cicatrice sul becco ed era ferita, ma continuava a muoversi. Vederla mi ha ispirato a fare la cosa giusta, ad andare avanti nonostante tutto e a gettare le basi per la fondazione. Quel tatuaggio è un promemoria, un simbolo di resilienza».
Ha intenzione di farne altri? «Non posso, altrimenti mia moglie chiede il divorzio!».