Nel suo ultimo libro Tre ciotole (Mondadori) nel primo racconto (sì è un libro di racconti) Michela Murgia narra di una donna che riceve una diagnosi di cancro all’ultimo stadio. Proprio come lei, che però ha scelto di vivere gli ultimi mesi realizzando tutti i suoi desideri fino in fondo e con tutta se stessa. Dai viaggi sull’Orient Express alle sfilate di moda, alle feste con la sua queer family «Io sto vivendo il tempo della mia vita adesso. Mi sveglio la mattina e dico tutto, faccio tutto… Questa libertà voglio usarla, per lasciare un’eredità. Se c’è qualcosa che non ho avuto il coraggio di dire o di fare adesso lo faccio. Non aspettate di avere un cancro per fare la stessa cosa» aveva detto parlando all’ultimo Salone del libro.

Michela Murgia

La diagnosi di cancro

Cancro al rene, quarto stadio. La scrittrice in una bellissima intervista ad Aldo Cazzullo per il Corriere della sera aveva rivelato della sua malattia e di come questo periodo della sua vita voleva attraversarlo in modo sereno, circondata dalla sua tribù. Una malattia che non lascia scampo e che l’ha spinta a preparare il passaggio al “dopo”, a lasciare traccia di sé, doni, non necessariamente economici, e cura a chi le sta di fianco. Perché la malattia, è inutile girarci intorno, è qualcosa che cambia tutto. «Hai bisogno di tempo per abituare te stessa e le persone a te vicine al transito. Un tempo per pensare come salutare chi ami, e come vorresti ti salutasse» disse nell’intervista.

Michela Murgia da Instagram
Una immagine tratta dall’account Instagram di Michela Murgia qui con il marito, l’attore e regista Lorenzo Terenzi.

Michela Murgia ribalta il senso della malattia

«Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno». Michela Murgia lo chiamava Am, col termine coreano, lingua e cultura di cui si era innamorata, che in inglese suona come I am, io sono. “Quello che ho è qualcosa che sono”: lo fa dire al personaggio della sua storia, sospesa davanti al medico che le sta comunicando cosa è successo e cosa dovrà fare da qui in avanti, e lo ha detto nell’intervista al Corriere. Così «ribalta il senso, comunica la malattia per parlare delle scelte di una vita» dice l’amico e scrittore Roberto Saviano. Racconta a tutti di questa fase che stava attraversando, ancora una volta un passaggio, un altro strato di sé, della sua complessità di donna, scrittrice, essere umano.

Michela Murgia da Instagram
Una immagine sul suo profilo Instagram in occasione del suo 50esimo compleanno.

Scrivere è un modo per cambiare la realtà

Michela Murgia era consapevole, ha accettato, ci ha regalato un modo diverso di considerare la malattia. In molti l’hanno ringraziata in quei giorni per questo, qualcuno l’ha criticata, come per altre scelte e discorsi che ha fatto in passato. «Per me scrivere è un modo per cambiare la realtà» ha detto a Annalisa Monfreda due anni fa in occasione dell’uscita del suo saggio Stai zitta. Lì parlava delle frasi e dei pregiudizi che accompagnano le vite delle donne. Poi è seguito God Save the Queer (entrambi Einaudi), un catechismo femminista che nasceva dalla domanda “Come fai a tenere insieme la tua fede cattolica e il tuo femminismo?” e dalla sua lotta per un mondo inclusivo che tenga conto delle differenze, dei problemi che le donne e non solo devono affrontare, dell’aborto, dell’eutanasia, della fecondazione assistita.

La fede in Dio

Michela Murgia credeva, e in Dio trovava la forza. «Prego tanto: è il mio rito quotidiano prima di dormire» ha detto ad Annalisa Monfreda. «Non ho mai passato un giorno in crisi di fede. Mai. Il mio rapporto con Dio non è conflittuale. E questo è merito di alcune teologhe che mi hanno mostrato, scritture alla mano, un volto di Dio che non discrimina le donne». Dio è una relazione, ha dichiarato ad Aldo Cazzullo. E in questo si è sempre rivelata in un certo senso “rivoluzionaria”.

Io non sono sola

Quelle volte che mi è capitato di incrociare Michela Murgia, per lo più per lavoro (è stata una collaboratrice storica della nostra rivista) non era mai sola. C’era sempre qualcuno intorno, persone, gruppi in cui capivo che tra loro c’erano dei legami forti, non di circostanza. E in cui si sentiva tanta ricchezza. Michela Murgia infatti sapeva circondarsi di persone che la “abbracciavano” con stima e affetto. Persone di cui si prendeva cura e che si prendevano cura di sé e degli altri. Gente con cui condivideva e coltivava idee e amore. «Io non sono sola. Ho dieci persone. La mia queer family. Un nucleo familiare atipico, in cui le relazioni contano più dei ruoli» ha detto al Corriere. Sono i figli dell’anima, come quelli che racconta in Accabadora, il suo romanzo più famoso. Non sappiamo se ci sono anche i 4 figli che l’hanno scelta e che lei ha cresciuto adolescenti per perpetuare una usanza, l’affiliazione elettiva, con cui lei stessa è diventata grande. 4 ragazzi a cui ha dato e insegnato tanto che in questo periodo le sono stati ancor più vicino. Comunque le 10 persone con cui ha scelto di vivere, e per cui ha comprato casa con 10 posti letto per stare tutti insieme – «mi è spiaciuto solo che mi abbiano negato il mutuo in quanto malata» – sono la sua famiglia.

Il nuovo romanzo

Le tre ciotole del titolo del suo nuovo libro sono quelle in cui la protagonista mangia un pugno di riso, un pezzetto di pollo o pesce e qualche verdura, non di più per via della nausea. Ma, oltre al racconto della malattia, c’è l’affondo sulla varietà dei comportamenti e delle emozioni umane quando attraversi un cambiamento radicale: uomini e donne che «s’innamorano di una sagoma di cartone o di un pretoriano in miniatura, odiano i bambini pur portandoseli in grembo, lasciano una donna ma ne restano imprigionati, vomitano amore e rabbia, si tagliano, tradiscono, si ammalano» recita il risvolto di copertina.
«Io conosco già la fine della storia, ma non mi sento una perdente» aveva detto Michela Murgia e, ancora una volta, la profondità della sua voce risuona per originalità. Tanto più quando il racconto del suo cancro al quarto stadio ci ha colpito per quanto diretto, intenso e potente. E perché in fondo parla di vita.

cover_Murgia_Tre ciotole