Michela, che cos’è per te Chirù? «È il libro che ho deciso di scrivere quando ho scoperto di avere un cancro. Per raccontare cose che pensavo di dover invecchiare prima di poter narrare. Invece mi sono trovata a chiedermi quanto tempo avessi ancora davanti. E ad affrontare l’idea che quello potesse essere il mio ultimo lavoro. È nato così Chirù. Mentirei se dicessi che è un libro autobiografico, ma ha in sé molto della mia vita». Michela Murgia mi guarda con un sorriso grande e gioioso. Oggi esce Chirù (Einaudi), la storia di un giovane violinista e del suo rapporto con Eleonora, un’attrice che diventa per lui una “madre spirituale”. Sono passati 6 anni dal romanzo Accabadora, con cui Michela ha vinto il premio Campiello.
«Da allora» ha scritto l’autrice in un post su Facebook «ci sono stati 11 premi, 2 lutti, 3 traslochi, un matrimonio, un tumore, una campagna elettorale, una separazione, una guarigione, un amore inatteso e una marea di persone speciali che hanno fatto con me pezzi di strada e ancora continuano a farne. Dopo 6 anni sono cambiata come non si cambia in 3 esistenze. E tornare al romanzo adesso significa portare nella mia scrittura la consapevolezza nascosta dentro al dono prezioso di tutta questa vita».
Allora Michela, da dove iniziamo? «Iniziamo dalla malattia». Chissà che paura… «Tanta. Tutto fino a quel momento ti è andato bene, intorno a te ci sono solo i frutti della tua forza. Improvvisamente ti scontri con qualcosa che non puoi controllare. I medici dicono: “Il tumore è messo così, andiamo a tentoni, non sappiamo che risultati darà la cura. Bisogna aspettare”. E tu, davvero, puoi soltanto aspettare. Il tuo tempo diventa un tempo d’attesa. Dell’ultimo esame, degli esiti della chemioterapia. Io, che trovo insopportabile persino fare la fila alla posta, mi sono trovata a fare la fila per la mia vita».
Quando hai saputo di essere malata? «L’ho scoperto durante la campagna elettorale (Michela Murgia è stata candidata alla presidenza della Regione Sardegna nel 2014, ndr). E non ne ho parlato. Non volevo pietà, non volevo essere accusata di sfruttare la malattia. Avrei potuto fermarmi, ma avrei vanificato l’impegno di centinaia di persone. Allora ho tenuto duro, e sono andata a curarmi fuori dalla Sardegna: se avessi fatto la chemio a Cagliari, mi avrebbero riconosciuta e sarei finita sui giornali. È stato un bene che fossi presissima dal progetto politico di Sardegna Possibile, perché se non avessi avuto altro pensiero che la malattia, mi sarebbe successo quello che succede a molti malati: tu non hai il cancro, tu diventi il cancro. E parli solo di quello, di come ti senti, del fatto che stai perdendo i capelli per la chemio. Io, invece, mi alzavo la mattina e pensavo al comizio, alla gente da incontrare, alla sintesi politica da fare, all’aereo da prendere».
Chi ti era vicino come ha reagito? «Ho informato 6-7 persone in tutto. Parlarne fa male. E, comunque vada, lascia dei lividi non solo a te, ma anche a chi ti ascolta. La mia esperienza c’è in Chirù. Eleonora ha una mamma che si ammala di cancro. Questa mamma, a un certo punto, allontana la figlia. Non vuole parlare con lei della malattia. Ho taciuto anch’io con i miei familiari più cari, mia madre e mia zia, perché ho capito che non avrei potuto affrontare il loro lutto. Una mamma che vede la figlia malata di cancro può solo essere disperata. Se io non ero cambiata perché avevo un tumore, il mio tumore avrebbe potuto paradossalmente cambiare loro».
Tu ce l’hai fatta. «Come tanti. Capita a tanti di ammalarsi di tumore e di uscirne vivi. Dovremmo metterci tutti insieme noi sopravvissuti. E parlarne, farlo sapere che il cancro non è un “male incurabile”. Invece ti resta attaccato una specie di pudore. Forse perché dal cancro, anzi dall’idea di cancro, non si guarisce mai. I medici ti dicono: “Tutto ok, il male non dà segni di vitalità”. Sì. Tu però sai che il tumore è come un signore che, seduto su una panchina, se ne va dimenticando il giornale. Potrebbe tornare a prenderlo in qualsiasi momento. O non tornare mai più. Da lì ho deciso che voglio vivere tutto. Ho addosso quello che Carmen Consoli, in una canzone, chiama “il senso spietato del non ritorno”».
È il senso della vita per la Eleonora del libro. «Eleonora non mi somiglia molto. È una donna con tante fratture non risolte che pensa di riscattare con il successo. Una ragazza di provincia che, all’inizio, si confronta con il mondo difficile della recitazione. E indossa, una dopo l’altra, molte maschere, diventando così brava da permettersi di insegnarle a Chirù. A questo ragazzo che le capita in mano, la guarda ammirato e le dice: “Quello che fai lo voglio fare anch’io”. Tra loro si stringe un patto che è un po’ come un’associazione a delinquere. Tutti e due hanno qualcosa da chiedere all’altro, e non sempre è una cosa legittima».
C’è qualcosa che accomuna Chirù ad Accabadora? «C’è il concetto che di mamma non ce n’è una sola e che i figli non sono solo quello che i genitori di sangue vedono. Ma sono un sacco di altre cose che possono vedere altri. Il libro parla del rapporto educativo tra una donna adulta e un ragazzo. È insolito, vero? Siamo abituati all’idea del padre spirituale, mentre le donne sono condannate a essere madri di sangue oppure a non essere madri affatto, se non a rischio di essere sospettate di avere secondi fini. Eppure c’è tanta ricchezza nell’allargare il respiro della genitorialità. Io non ho figli, ma ho un’eredità da lasciare: quello che so fare, quello che ho visto, quello che ho imparato a chi andrà? A nessuno? No. Andrà ai figli degli altri, se c’è qualcuno che vorrà imparare».
Hai scritto sulla tua pagina Facebook: «Da Accabadora a oggi ci sono stati un matrimonio, una separazione, un amore inatteso». «Esci da un tumore e devi rimettere ordine nella tua scala di valori. Fai i conti con le tue scelte e ti chiedi: “E se non avessi tutto il tempo che credevo di avere? Se me ne restasse poco, sono sicura di volerlo vivere così? O ho ancora qualcosa da chiedere e da dare?”. Ho parlato con mio marito. Ci siamo detti: “Ci siamo voluti bene, non ci siamo mai fatti del male, ci siamo sempre appoggiati l’uno all’altro. Ma il nostro rapporto non è più un matrimonio. È amicizia, è un patto di reciproco sostegno, è complicità”. Entrambi siamo ancora giovani, lui più di me, e forse è giusto chiedere alla vita qualche altra cosa. Così ci siamo separati».
E ora? «Oggi ho un amore nuovo e bellissimo. Ma di questo non ti dico nulla» (invece, spento il registratore, Michela mi fa vedere le foto di un ragazzo affascinante, mi racconta come l’ha incontrato. E me ne parla con gli occhi che ridono mentre beviamo un bicchiere di Barbera…).