I film di Michelle Yeoh
CHI ERA GIOVANE TRA GLI ANNI ’90 E I PRIMI 2000 ricorda Michelle Yeoh volteggiare con la spada nel cult di Ang Lee La Tigre e il Dragone, lottare contro un gruppo di tecnoterroristi accanto allo 007 Pierce Brosnan in Il domani non muore mai, danzare in kimono in Memorie di una geisha. I ragazzi di oggi la conoscono grazie a film sui supereroi come I Guardiani della Galassia 2 o Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli e alla serie tv di fantascienza Star Trek: Discovery.
Michelle Yeoh, la prima attrice orientale diva di Hollywood
Michelle Yeoh, 60 anni, malese di origini cinesi, è stata la prima attrice orientale a diventare una diva di Hollywood: merito – anche – della bellezza (è stata Miss Malesia nel 1983), dell’eleganza (eredità degli studi di danza iniziati a 4 anni) e della maestria nelle arti marziali (che le ha consentito di girare la maggior parte delle scene di combattimento senza ricorrere a controfigure). Già eletta dal sito di critica cinematografica Rotten Tomatoes “la più grande eroina d’azione di tutti i tempi”, Michelle ha ricevuto al Toronto Film Festival il prestigioso “Share Her Joura ney Groundbreaker Award”, che premia le attrici più innovative e torna al cinema con Everything Everywhere All At Once, che ha raccolto 11 nomination agli Oscar.
Il ruolo di Michelle Yeoh nel film candidato a 11 Oscar
Nel film è Evelyn, una donna alle prese con problemi personali (il marito vuole il divorzio), lavorativi (la lavanderia che gestisce viene sottoposta a revisione contabile) e cosmici (l’universo è minacciato da una forza maligna che solo lei può sconfiggere). È un ruolo un po’ diverso da quelli in cui ha recitato finora. «Finalmente ho potuto interpretare una donna normale, di quelle che incontri sull’autobus o quando fai la spesa. Evelyn rappresenta le mamme, le zie, le nonne che nessuno nota mai. Volevo dare voce a tutte queste donne che, nelle loro vite, sono eroine».
Il film sta avendo un grande successo negli Usa, dove ha incassato oltre 60 milioni di dollari. E il New York Times l’ha definito un «vortice anarchico di generi». Lei come lo descriverebbe?
«Non è facile, mescola 5 generi diversi: fantascienza, dramma, commedia, azione e anche un po’ di horror. Il cuore della storia è la relazione tra Evelyn e sua figlia Joy, che si cercano attraverso molteplici universi perché non vogliono rinunciare all’amore per la propria famiglia. C’è qualcosa di molto poetico in questo».
Cosa le hanno chiesto i due registi, Daniel Kwan e Daniel Scheinert, prima di iniziare le riprese?
«Di lasciarmi andare, di dimenticare tutto quello che avevo imparato in quasi 40 anni di carriera. Evelyn, il mio personaggio, si trova a dover affrontare un sacco di cose nuove, impensabili per lei fino a un attimo prima: scopre altri mondi, inizia a combattere… E, di conseguenza, i registi mi volevano smarrita, confusa e meravigliata. Non è stato facile per me, abituata da sempre ad avere il controllo sulle situazioni, soprattutto facendo arti marziali». Grazie alle quali, nel corso della carriera, spesso non ha usato controfigure nei combattimenti.
Lo fa ancora?
«Sì, e mi piace moltissimo. Mi alleno ogni giorno, sono una persona estremamente disciplinata: vario tra kickboxing, yoga, pugilato, arti marziali. E poi due ore di cardio e una doccia ghiacciata».
Quando ha iniziato a praticare arti marziali?
«Quando ho smesso di fare la ballerina. Vengo da una famiglia molto tradizionale, mio padre voleva che i maschi facessero Kung Fu e le femmine danza classica. Il mio sogno era aprire la mia scuola di ballo in Malesia. Poi, dopo aver lavorato con Jackie Chan, mi sono interessata al Kung Fu: la coreografia dei movimenti mi ricordava la danza. Nella classica tutto è aggraziato, sembra quasi che tu non faccia sforzi. Nelle arti marziali, invece, devi essere potente, fare male con un pugno. Volevo entrare nel “club dei maschi”, diventare una guerriera che picchiava i ragazzi!»
Ha uno stile di combattimento particolare?
«No, nel cinema si usano diversi stili. Ho imparato tutte le mosse di base, le posizioni, i calci: non si può improvvisare, altrimenti si rischia di far male a un altro attore. Per La Tigre e il Dragone ho praticato molto Tai Chi, in Everything Everywhere All At Once sono un Kung Fu Master».
Durante la sua carriera ha abbandonato il cinema due volte. Per quali ragioni?
«La prima volta mi sono sposata (con il produttore Dickson Poon, ndr) e volevo mettere su famiglia. Poi i figli non sono arrivati, abbiamo divorziato e sono tornata a lavorare con Jackie Chan in Police Story 3: Supercop. La seconda volta stavo girando The Stunt Woman: sono caduta da un ponte e credevo di essermi rotta la spina dorsale… Ho pensato che ero stata fortunata a non farmi male e che era forse arrivato il momento di considerare un lavoro meno pericoloso».
E poi cosa è successo?
«Quentin Tarantino era a Hong Kong per presentare Pulp Fiction e ha voluto incontrarmi. Ha passato un’ora a elencarmi tutte le scene di lotta che avevo fatto, descrivendole nei minimi particolari. E mi ha pregata di non abbandonare il cinema. L’anno dopo, era il 1997, ho interpretato il mio primo film in inglese: Il domani non muore mai con Pierce Brosnan». Da allora il numero degli attori asiatici a Hollywood è aumentato e la rappresentazione dei personaggi si è evoluta: non sono più solo campioni di arti marziali o boss della mafia cinese. «Abbiamo vinto alcune battaglie, ma non la guerra. I produttori americani erano molto chiusi ai cambiamenti, pensavano che una formula che funzionava non andasse cambiata. Per me è sempre stato assurdo, la nostra società si è evoluta ed è giusto che il cinema la racconti. Una bella storia trascende il colore della pelle. E tutti devono avere la propria voce».
In questo senso, lei è un modello.
«Diciamo che ho un’età che mi ha resa un punto di riferimento! Le nuove generazioni apprezzano quello che ho fatto perché ho reso la loro strada un po’ più facile. In questo momento della mia carriera, è il motivo per cui non andrò più in pensione: finalmente, dopo tanti sacrifici, sto ottenendo le opportunità che ho sempre voluto».
Ha cambiato approccio? «
Quando ero più giovane, avevo una lista lunghissima di tutto quello che avrei voluto fare nella vita, sia privata sia professionale. Pensavo che in questo modo avrei ottenuto ciò che desideravo. Oggi la mia filosofia è diversa: go with the flow, segui la corrente. O, come diceva Bruce Lee, grande maestro delle arti marziali, sii come l’acqua che si fa strada attraverso le fessure. Adattati alle cose che hai di fronte e troverai un modo per aggirarle o attraversarle. A 60 anni preferisco farmi sorprendere. Credo che il dono che abbiamo nella vita sia quello di vivere nel presente perché, nel momento in cui si inizia a pensare a quello che abbiamo o non abbiamo realizzato, il tempo è già passato. Siamo ciò che siamo, con fallimenti e successi: ma è proprio questo a renderci più forti. Cogliamo l’attimo e godiamocelo al meglio!».