Just Kids, solo ragazzi, è il titolo del bellissimo libro che la cantante Patti Smith ha scritto nel 2010 raccontando la sua amicizia con il fotografo maledetto Robert Mapplethorpe. Solo ragazzi, ma che ragazzi! Sognatori, imprudenti come Hansel e Gretel: però il bosco dove si perderanno non era quello della strega, bensì la New York della fine degli anni Sessanta. La cantante e il fotografo attraverseranno gli anni Settanta di slancio, cavalcando droga, sesso ed eccesso. Nel 1978 Patti Smith finirà sulla copertina di Rolling Stone diventando un mito. Mapplethorpe dovrà aspettare gli anni Ottanta per essere consacrato come uno dei più provocanti fotografi della sua generazione. Ma con gli anni Ottanta arriverà anche l’Aids e il conto da pagare per una sessualità selvaggia, consumata come se non ci fosse un domani. Il virus colpirà fra le stelle e dentro le stalle. Vittime illustri scompariranno senza pietà nel fiore degli anni. Fra questi anche lui, Robert Mapplethorpe, morto il 9 marzo 1989 in un ospedale di Boston.
Aveva appena 42 anni, anche se nei suoi ultimi incredibili autoritratti ne dimostrava almeno venti in più, divorato dalla malattia. Nato nel quartiere del Queens a New York da una famiglia cattolica di origini irlandesi nel 1946, Robert aveva avuto modo di imparare fin da piccolo ad avere dimestichezza con il peccato. Giovanissimo, non aveva avuto problemi a sfidare le pene dell’inferno pur di conquistare il proprio piacere. Le sue prime foto sono composizioni con un taglio narrativo classico che racconta la vita del suo branco sadomaso con molto cuoio e molte borchie. Velocemente, però, lo stile di Mapplethorpe si sposta verso un’estetica più raffinata, anche se non meno sconcertante e scandalosa. Il taglio delle immagini cambia quando dal suo studio in Bond street a Soho si sposta in un attico verso la 23ma strada che gli regala il collezionista, curatore e amante Samuel Wagstaff in cambio di qualche servizio corpografico. Mapplethorpe è estremo con le sue immagini, ma anche estremamente controllato. Costruisce una sorta di pornografia rinascimentale. Il corpo al centro dell’universo. La prospettiva con il punto di fuga che spesso coincide con il buco del sedere. Lo scandalo è assicurato, anche se nessuno si scandalizza mai davanti al Giardino delle delizie di Bosch al Museo del Prado di Madrid, dove in un angolo del dipinto un signore nudo infila un mazzo di fiori nello sfintere di un altro. I puritani però urlano e invocano la censura davanti alle foto di questo artista dove alcune parti del corpo s’incrociano e intrecciano con altre in modo diretto ma inusuale. Inutile fare notare che questo fotografo purifica il gesto dall’aspetto pornografico, offrendolo nella sua dimensione plastica e scultorea.
La fotografia di Mapplethorpe viene paragonata ai disegni di Michelangelo, dai quali prende ispirazione. È un po’ una esagerazione. Qualche differenza fra il genio fiorentino e Mapplethorpe c’è. Il primo è agitato dal conflitto fra l’elevazione dell’anima e quella del muscolo. Il secondo è spudoratamente attirato dalle contrazioni del corpo. Il percorso creativo dei due artisti è inverso. Il primo parte con uno stile classico per arrivare a una scultura quasi espressionista ante litteram. Il secondo parte dalle espressioni del sottosuolo per arrivare a fotografie iper classiche. Le visioni super rifinite di Mapplethorpe provano a farci scordare che solo pochi, fortunati, muscoli non sono sostenuti da quello scheletro unisex che il tempo fa venire alla luce. Il corpo, per questo ragazzaccio americano, è come un paesaggio. L’individuo diventa natura, sconfinata. I corpi muscolosi dei modelli prediletti di Mapplethorpe, quello di Lisa Lyon, piccola e sensuale, e quello di Derrick-Cross, duro come l’ebano e buio come il desiderio, diventano simboli ideali della lussuria fine a se stessa. Le sue immagini in un bianco e nero reso purissimo dalla tecnica di stampa al platino sono veri e propri studi ano-tomici.
Nel 1990, in una America super bacchettona, la mostra “Robert Mapplethorpe/The perfect moment” al Contemporary Art Center di Cincinnati, con sette ritratti sadomaso, creò un tale scalpore da far finire davanti ai giudici il direttore del museo Dennis Barrie. Esagerati! In fondo il nostro povero fotografo amava solo il corpo, la sua forma, le sue pulsioni, in un’epoca dove nessuno ti poteva mettere al rogo se l’anima e Dio interessavano un po’ meno che al tempo dei Medici e dei Papi. Mapplethorpe, peraltro, era innamorato del passato. Le sue foto di sculture antiche e neoclassiche sono ritratti, creati da qualcuno capace di innamorarsi ed eccitarsi anche davanti a un pezzo di marmo. O forse erano le persone a diventare davanti al suo obbiettivo pure e dure come delle statue. Sicuramente la sua arte mette a nudo una società dove molta gente l’anima se l’era venduta in qualche locale notturno. Nell’ultimo autoritratto, l’artista, elegantissimo, corroso dalla malattia, con un teschio in mano, guarda l’obbiettivo, mentre al di là della macchina fotografica non c’è nessuno. Una foto emblematica di un mondo che avendo investito, come la Borsa, tutto in azioni e non in fatti, ha finito per trovare la cassetta di sicurezza della vita vuota. Dietro la lente che guarda l’artista non c’è nessun Dio, ma solo la superficie, sottile e piatta, del negativo di un mondo destinato anche questo a scomparire con l’arrivo del digitale. Termine che a Mapplethorpe sarebbe stato comunque molto congeniale.