Veronica si inginocchiò davanti al forno e lo aprì. Il fumo le annebbiò gli occhiali, per controllare l’orata li spinse giù sul naso e poi alzò gli occhi verso la teglia. La pelle del pesce si stava seccando da un lato e restava rosa dall’altro, bisognava regolare la temperatura e mancavano comunque almeno 15 minuti. Di fronte a quel tempo srotolato davanti a sé come un deserto nel mezzo di un’estate romana, finalmente pianse. Cominciò dopo aver chiuso il forno con la schiena sul muro, continuò raggomitolata fra lo stipite dell’elettrodomestico e la porta del balcone, sulle mattonelle gialle, mentre Beyoncé saliva e scendeva dal piano di sotto scortata dall’ilarità di una coppia di 20enni spagnoli di passaggio nell’appartamento altrimenti vuoto delle studentesse fuorisede: tutto quel chiasso intorno alla canzone Halo ricordava a Veronica che la felicità è un dovere e chi non l’adempie deve presentare apposito documento coi suoi validi motivi. Veronica il documento ce l’aveva: la prescrizione dello psichiatra nel primo cassetto del tavolo in cucina. E alle entità che le chiedevano di essere felice, prima di tutte la musica che impunita attraversava il condominio deserto, poteva urlare: «Sciò, silenzio e lasciatemi in pace».
«Freezing» le aveva detto il dottore
«Si chiama freezing: congelamento delle emozioni. Signora, lei ha subito uno shock e tutto quello che riguarda la sfera dei sentimenti adesso si è preso una vacanza» così le aveva detto. Ascoltando quell’uomo piccolo e tarchiato, Veronica aveva osservato la buffa cravattina rossa, la rada barba bianca, e aveva provato il sollievo di non essere niente di speciale, giusto una voce in un manuale di medicina. «E quanto tempo dura questo frigorifero?» aveva chiesto per educazione, non perché vedesse l’orizzonte. «Lei non se ne preoccupi» aveva risposto il dottore. «Passerà da sé». E le aveva dato il foglio con il timbro, la firma e un potente antipsicotico: ma a basso dosaggio, una dose talmente minima, stia tranquilla, aveva ripetuto il dottore, stia tranquilla. «I can feel your halo», riesco a sentire la tua aura, cantava Beyoncé a Veronica, o forse all’orata. I ragazzi di sotto cantavano con lei e l’odore di cucinato riempiva la stanza e l’aria buia delle 9 di sera. Avrebbe potuto cuocerla al cartoccio, invece l’aveva stesa sulla teglia e girata già una volta, per raggiungere la cottura perfetta. Due patatine accanto, tagliate a spicchi con un’ombra di rosmarino e poco olio a condire, e intanto Veronica assorbiva il mal di piedi e il mal di testa e il mal di schiena venuti dalle giornate di lavoro frenetiche e inarrestabili: prima di partire per Ferragosto tutte le signore di Casalbertone devono farsi la tinta e tutte vogliono essere perfette prima di sfasciarsi i capelli al mare. In un solo giorno ne aveva soddisfatte 12. Aveva alzato la saracinesca alle 9 e l’aveva calata alle 19.50, era tornata a casa e per prima cosa si era fatta un pediluvio. Non aveva fame per la stanchezza, ma si era messa a cucinare per non pensare a niente.
L’idea di andare in vacanza era diventata un territorio estraneo
da quando, una mattina di inizio stagione uguale alle altre, andando ad aprire il negozio, nella strada fatta un milione di volte si era trovata davanti all’incidente. Della donna stesa sotto il camion non aveva visto subito la testa, c’era sangue scuro e poi 2 gambe lunghe, femminili, con le caviglie assottigliate e l’orlo della gonna blu che sfiorava le ginocchia. Due gambe come le sue, più belle delle sue. Veronica si era appoggiata al muro, e non aveva più capito nulla, non aveva capito chi era la morta e chi la viva. Quando ebbe finito di cantare tutto quello che doveva cantare, Beyoncé si zittì e le lacrime di Veronica si interruppero. Il campanellino del forno trillò con quel suo rumore rozzo, Veronica si tolse gli occhiali e aprì lo sportello, il fumo che doveva uscire uscì e il cuore si alleggerì un pochino. Alla faccia del congelamento delle emozioni e dell’afa tutta intorno, aveva pianto. «Si chiama freezing» aveva detto alla sua amica Angela al telefono, non capendo se la stava rassicurando o allarmando. Non era sicura di quanto si dovesse calcare la zeta, la prima volta aveva detto frizzing, la seconda friiising, e Angela, che aveva studiato Lingue, non l’aveva corretta. Comunque Veronica con l’inglese se la cavava: quando erano compagne di banco, ai tempi del liceo artistico, era lei a prendere voti più alti, allo scritto non scendeva mai sotto il 7, mentre Angela a volte non arrivava alla sufficienza. Eppure Angela aveva potuto continuare a studiare, mentre Veronica faceva la praticante già nelle estati prima del diploma: magari non avrebbe preso Lingue ma volentieri l’Accademia delle Belle arti, sognava di diventare ceramista, purtroppo però non era un mestiere che i suoi intendevano come normale. Per placarli, e per cominciare a vivere da adulta, le servivano oggetti di fatica e una mensilità con cui rendersi autonoma.
«Se fra i due qualcuno deve studiare, studierà tuo fratello»
dicevano la madre e il padre di Veronica. Suo fratello aveva allora 11 anni e una gran voglia di stare per strada: quella voglia gli crebbe accanto, uguale e anzi più alta, grande e grossa. Così, lui che avrebbe potuto studiare non studiò e dopo la terza media si mise a fare il meccanico, mentre insieme al diploma Veronica aveva nascosto le sue ambizioni e preso a spremerle per i dialoghi con le clienti: c’era sempre qualcuna a cui raccontare la sua vita come poteva essere e non era stata, con la vetrina del negozio di ceramiche lucida e artistica e l’insegna con un nome esotico, forse africano. Così sognava Veronica, e stirava più forte con la spazzola rotonda, e attaccava la piastra alla presa, la nuova piastra basculante che aveva comprato dal fornitore per lisciare i capelli delle ragazzine il venerdì e il sabato pomeriggio.
Oggetti di fatica
All’inizio aveva fatto la sciampista gratis, poi si era pagata una scuola, era diventata parrucchiera in un negozio del quartiere e infine, quando quello aveva chiuso, se n’era aperto uno tutto suo; sull’insegna non aveva voluto nulla, solo il nome: “Veronica”. Si affacciava sulla piazza e tutta Casalbertone correva a farsi i capelli da lei. «Non vuoi un aiuto?» chiedevano le pensionate da sotto il casco, sconcertate nel vederla trottare, minuta e agile, e fare tutto con 2 braccia e 2 gambe, dalla pulizia per terra alle tinte e persino ai bigodini, perché le anziane che ve- nivano la mattina avevano le acconciature tutte uguali e all’antica. Due volte Veronica aveva ceduto e si era messa dentro una minorenne in nero, però pagata non poco e a inizio mese, dunque rispettata: la nipote di una cliente la prima volta e la figlia del barista la seconda. Ma niente, non aveva funzionato. Tutt’e due erano pigre e sciatte, se n’erano andate dopo pochi mesi senza lasciarsi dietro né tracce né rimpianti. Le ragazze di oggi vogliono tutto e subito, si lamentava frizionando lo sciampo con più energia, non capiscono che le cose bisogna sudarsele. «Chissà come sarebbe stato lavorare con una collega» pensò Veronica.
Della donna morta il 7 luglio aveva saputo che aveva 3 anni meno di lei,
che lavorava come segretaria di una dentista, non aveva figli e viveva da sola: era stato come guardarsi allo specchio ogni ora, ogni giorno dopo l’incidente. Aveva visto una foto che la ritraeva al mare, su un lettino, con un cocktail verde in mano, abbracciata a un ragazzo più giovane. Un’altra estate, un’altra vita. Si chiamava Stella. Quel nome, Veronica non avrebbe più potuto sentirlo pronunciare; stese le gambe, fissò la finestra chiusa e i piccoli buchi di luce nella penombra. Non sarebbe partita, avrebbe passato ogni giorno di agosto sola in casa, magari avrebbe potuto leggere, leggere le piaceva, da qualche parte in casa c’era un romanzo che le aveva regalato Angela, Jane Eyre. Le sembrava di ricordare che parlava di una ragazza, di un amore, di un collegio: parlava della vita, di quella cosa lontana e inarrivabile da cui fino a settembre, ferma nel suo congelamento e poi intenta a scalfirlo, per un’estate Veronica si era presa una pausa.
Nadia Terranova, 41 anni, di Messina, esordisce nel 2015 con Gli anni al contrario (Einaudi). Ai romanzi alterna libri per ragazzi, come Le nuvole per terra (Einaudi Ragazzi, 2015) e Omero è stato qui (con le illustrazioni di Vanna Vinci, uscito quest’anno per Bompiani Ragazzi). Nel 2018 pubblica il romanzo Addio fantasmi (Einaudi), che è stato finalista al Premio Strega e ora è in corso di traduzione in 25 Paesi. Trovi qui tutti i nostri racconti dell’estate.