Che tipo di donna raccontano gli Oscar 2019? Regale o popolare, forte o debole, nella luce o nell’ombra? Un pezzetto di tutte, una nessuna centomila eroine che dimostrano come le storie femminili siano protagoniste degli Academy Award assegnati il 24 febbraio. L’edizione n. 91 del più ambito premio cinematografico schiera 63 candidate, il 28% del totale: un dato record.
Forti nella solitudine
«A volte è bello essere una regina!» dice la Anna Stuart di “La favorita”. La interpreta Olivia Colman, 45 anni, volto magnetico che con questo ruolo ha strappato la sua prima nomination come migliore attrice protagonista. Potere fa rima con solitudine: la struggente sovrana coi suoi 17 coniglietti, tanti quanti i figli che ha perso, è contesa da cortigiane ruffiane a cui più dell’affetto importa un posto a palazzo (Emma Stone e Rachel Weisz, nominate entrambe come non protagoniste). «Dev’essere stata una donna molto sola» osserva l’attrice.
È la narrazione che l’Academy ci regala quest’anno: donne dentro la Storia, ma con storie di solitudini e ingiustizie inespresse. La Cleo di “Roma” di Alfonso Cuarón, tata nel Messico anni ’70, ha la vita scandita dai ritmi della famiglia per cui lavora: «Anche mia madre fa la domestica: conosco quella fatica» rivela Yalitza Aparicio. La debuttante 25enne è la prima messicana di origine india candidata agli Oscar: un colpo al cerchio (la presa di posizione ideale contro l’amministrazione Trump) e uno alla botte (l’integrazione culturale che non è più un’utopia). Roma è un racconto di donne che cambiano il proprio destino, ma senza alcuna sottolineatura “di genere”. Come a dire: la loro è una vita come tante, e oggi possiamo finalmente ritrarla per quello che è.
Lo stesso avviene negli altri film dell’anno. Con la Melissa McCarthy di “Copia originale” empatizzi al di là del suo essere donna: la vera Lee Israel, a cui dà volto, si mise a falsificare negli anni ’90 le lettere di scrittori famosi perché non riusciva a diventarlo lei stessa. È la stessa vicenda che ci consegna Glenn Close in “The wife – Vivere nell’ombra”: per tutta la vita il suo personaggio, Joan Castleman, ha lasciato andare avanti il marito, scrittore da Nobel, nonostante lei avesse la medesima ambizione. Sui primi piani della star, che a 71 anni dovrebbe vincere la prima sospiratissima statuetta, si legge tutto: la rinuncia, la frutrazione, la rabbia repressa. «È un fatto storico: a noi donne è concessa una minore possibilità di affermazione personale» commenta. Fino a oggi: film come questo possono invertire lo storytelling.
Capaci di riscattarsi
Ally (Lady Gaga) confessa a Jack (Bradley Cooper) la sua abitudine alla resa: «Tutti mi hanno detto che non ce l’avrei mai fatta». È notte fuori da un drugstore, i 2 si sono appena conosciuti, ma i ruoli sono già definiti: lui musicista di successo, lei aspirante cantante ormai disillusa. “A star is born” è l’altra faccia di “The wife”: anche qui c’è una fidanzata (poi moglie) che parte come “grande donna dietro un grande uomo” e dopo però si prende la scena. «Mi ha ricordato me stessa da ragazza: a un certo punto avevo messo da parte tutte le mie aspirazioni» ha confidato Lady Gaga. Il messaggio delle protagoniste (e non) dei titoli da Oscar è chiaro: non sempre chi sta in seconda fila è meno rilevante.
Amy Adams, moglie dell’ex vicepresidente americano Dick Cheney (Christian Bale) in “Vice – L’uomo nell’ombra”, è una sorta di Lady Macbeth moderna: senza la convinzione di lei, lui forse alla Casa Bianca non ci sarebbe mai arrivato. Lucy Boynton in “Bohemian Rhapsody” (lei non è nominata, ma il film ha ricevuto 5 candidature) è Mary Austin, la prima a comprendere la personalità eccezionale, e il potenziale iconico, di Freddie Mercury. Mentre Regina King di “Se la strada potesse parlare”, in pole position tra le candidate non protagoniste, prova a salvare il genero ingiustamente accusato di stupro nell’America razzista degli anni ’50 (quando i mariti subivano passivamente il corso degli eventi).
Pronte a lottare
«Sorelle, siate fiere, non abbiate paura!». Le combattenti di Wakanda sono toste, indipendenti, orgogliose. “Black Panther” è la sorpresa degli Oscar di quest’anno: è il primo cinecomic sbanca-botteghini a correre come miglior film. Dietro la sfida del supereroe afro c’è un inno al “girl empowerment”. «Wakanda è un mondo paritario» spiega Danai Gurira, alias la capo-guerriera Okoye. «I media possono davvero cambiare la percezione della società: l’unicità di questo film è aver messo al centro donne forti, e per giunta africane, rendendolo un fatto naturale. È una lezione per le bambine di oggi».
E l’opposto della corte machiavellica di “La favorita”, dove le lady sono pronte a farsi la guerra a vicenda. Ma, sotto la sfida per un posto d’onore accanto alla regina, i personaggi di Emma Stone e Rachel Weisz tradiscono la difficoltà di scegliere da sole la propria strada. È questo il bello degli Oscar 2019: raccontano sia il lato positivo sia quello oscuro del femminile, le limitazioni di ieri e le speranze di oggi, senza lasciarsi andare alle semplificazioni del dibattito #MeToo. Le donne possono essere tutto: giuste o infide, sincere o colpevoli, radiose o turpi. Purché siano al centro del racconto. Quelle che prima erano figure nell’ombra adesso sono finalmente pronte a brillare.