Papi e pagliacci, soldati e mafiosi, re delle corse e regine della canzone. Personaggi reali che, grazie all’immaginazione, sembrano prendere ancora più vita. E personaggi immaginati che, attraverso copioni puntualissimi, acquistano verità. È ciò che ci dicono gli Oscar del 2020 (in diretta domenica 9 febbraio su Sky Cinema Oscar): anche nei grandi affreschi basati su fatti veri, quel che conta è la dimensione intima e privata.
I 9 candidati a Miglior film
La magia dell’empatia
Arriva dalla Corea del Sud il titolo che insidia le produzioni hollywoodiane. Dopo la Palma d’oro a Cannes, Parasite di Bong Joon-ho potrebbe strappare la statuetta di “best movie” ed essere così la prima opera asiatica a vincere il premio più importante del cinema (non solo) Usa. Parasite è anche il film che meglio rappresenta il bisogno che abbiamo oggi di piccole storie capaci di diventare allegorie universali. In questo caso, dell’eterna lotta di classe che però cambia le regole del gioco: chi sono i parassiti del titolo? La ricca famiglia di Seul chiusa nella sua villa hi-tech o i poveri che, con diversi stratagemmi, s’infiltrano nella loro vita? «È un’opera triste e crudele, ma sono stato onesto con gli spettatori: è la società che viviamo» dice il regista.
Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, uno dei film che hanno portato Netflix al record di nomination (24 in totale, cifra mai registrata prima da una piattaforma di streaming), è dichiaratamente un racconto d’intimità, cioè quella (in)finita tra Adam Driver e Scarlett Johansson alla vigilia del divorzio: in mezzo ci sono un trasloco, il teatrino degli avvocati e, soprattutto, la futura custodia del figlio. Il Los Angeles Times sottolinea l’empatia creata con gli spettatori: «È un’esperienza emotivamente lacerante».
Il lato nascosto della realtà
Il concorrente più temuto da Parasite è però 1917 di Sam Mendes, già vincitore del Golden Globe. Grazie al suo (finto) piano sequenza di 2 ore, è l’operazione più immersiva mai vissuta nelle trincee della prima guerra mondiale. Al regista, però, importa il fattore umano: non è il bollettino dal fronte, ma la storia del giovane caporale (George MacKay) a traghettare l’azione e il pathos. Il soldato ha poche ore per raggiungere un battaglione inglese vicino e comunicare che i tedeschi sono pronti ad attaccarlo.
Vale lo stesso per The Irishman di Martin Scorsese, altro colosso “made in Netflix” che parte dall’omicidio del sindacalista colluso con la mafia Jimmy Hoffa (Al Pacino) per dipingere una parabola di uomini che non vogliono essere sepolti dal tempo. Letteralmente: gli effetti speciali hanno ringiovanito i grandi divi protagonisti, a partire dal narratore Robert De Niro. Che nei panni del sicario “irlandese” Frank Sheeran, futuro killer del suo mentore Hoffa, traccia una nerissma pagina di storia americana come fosse la vita, sbagliata e fuggevole, di singoli individui.
In Le mans ’66, più della mitica sfida tra ferrari e ford, conta l’amicizia tra 2 uomini. E in C’era una volta a… Hollywood L’omicidio di Sharon Tate resta sullo sfondo
Sono uomini anche l’ingegnere (Matt Damon) e il pilota (Christian Bale) di Le Mans ’66 – La grande sfida, ricostruzione della sfida tra Ford e Ferrari dove più dei motori contano i sentimenti virili: al centro del plot, accanto al prodigio meccanico, ci sono i caratteri così diversi, eppure capaci di legarsi in una profonda amicizia, dei 2 protagonisti.
Ed è un uomo, “amico immaginario” ma tristemente reale, l’Adolf Hitler di Jojo Rabbit, una sorta di evoluzione di La vita è bella di Roberto Benigni in cui è l’educazione alla vita di un bambino a ribaltare la tragedia del Reich. Fino al simbolo più forte di tutti: la favola cinematografica di Quentin Tarantino. C’era una volta a… Hollywood è il personale tributo alla Golden Age losangelina. E un’altra storia più privata che pubblica: l’assassinio di Sharon Tate (Margot Robbie) per mano della “Manson family” resta sullo sfondo. In primo piano ci sono un divo al tramonto (Leonardo DiCaprio) e il suo assistente fallito (si fa per dire: è Brad Pitt, in pole position tra i non protagonisti) che sfidano la Storia con un tenerissimo lieto fine.
La vita dietro le quinte delle icone
«Non aspettatevi il rigore storico: questo è un confronto tra 2 uomini» scrive The Atlantic. Il “duello” tra Bergoglio (Jonathan Pryce) e Ratzinger (Anthony Hopkins) in I due Papi abbandona la cronaca per seguire la psicanalisi, o quasi: lo scontro tra 2 diversi modi di intendere la Chiesa (progressista il primo, conservatrice l’altro) si trasforma nell’incontro tra 2 anime non così lontane.
È psicanalitico pure il biopic Judy, che dovrebbe portare a Renée Zellweger il secondo Oscar. «Judy Garland è stata un’eroina iconoclasta, ma ho voluto amplificare il fatto che fosse, prima di tutto, una donna» osserva l’attrice. Tant’è che la diva della musica non è fotografata nel momento del massimo successo, ma sul viale del tramonto (e delle dipendenze).
Tallona Renée, tra le attrici protagoniste, Charlize Theron con Bombshell – La voce dello scandalo. Interpreta Megyn Kelly, la giornalista che nel 2016 fu coinvolta nel caso che travolse Roger Ailes, il tycoon di Fox News accusato di molestie. Ma qui non vediamo nessun processo: c’è, invece, la vita “dietro le quinte” di 3 donne (le altre sono Nicole Kidman e Margot Robbie) che lottano per farsi ascoltare.
In campo femminista, l’icona di fantasia più celebre nasce dalla penna di Louisa May Alcott. Ma la Jo March (Saoirse Ronan) del Piccole Donne versione 2020 parla alle spettatrici di oggi: «Jo era quella da cui mi vestivo da piccola, ma è anche il personaggio che ancora oggi insegna a tutte che possiamo imporre noi stesse per ciò che siamo» spiega l’autrice del film Greta Gerwig.
E dai fumetti arriva la vera maschera di quest’anno: il Joker di Joaquin Phoenix, favoritissimo tra gli attori protagonisti. Un’altra icona pop che, in quest’annata così intimista, diventa il pretesto per raccontare la storia di un uomo e la sua deriva nel disturbo mentale. Il film di Todd Phillips si discosta dalle strisce originali della DC Comics per concepire un’alternativa privata al passato del “villain” di Batman, finora sempre illustrato solo nelle sue gesta sanguinarie. È il suo riso amaro e così umano a definire questa stagione di cinema.