Dopo le polemiche e gli hashtag di protesta – come #OscarsSoWhite nel 2016, che mise in imbarazzo la manifestazione con una foto in cui c’erano solo attori bianchi – l’Academy ha ufficialmente modificato i criteri di selezione per i film nominati alla statuetta di Miglior film, introducendo delle nuove regole che entreranno in vigore a partire dall’edizione del 2024. L’edizione 2020, d’altra parte, aveva già segnato un primato storico: la vittoria di Parasite, il film diretto dal regista sudcoreano Bong Joon-ho, il primo film non in lingua inglese a vincere il premio come Miglior film nella storia della manifestazione. Basandosi sul modello del British Film Institute e con la collaborazione della Producer Guild of America, gli Oscar hanno così ridisegnato i loro criteri di ammissione, nel tentativo di promuovere e incentivare la rappresentazione di genere e delle minoranze.

L’importanza della rappresentazione 

Le opere che sperano di essere nominate come Miglior film dovranno infatti possedere almeno due di questi quattro requisiti: 1) all’interno del film deve essere presenti persone appartenenti a minoranze etniche, sia in ruoli sostanziali che nelle tematiche; 2) un certo numero di membri chiave della troupe deve essere donna o appartenente alla comunità Lgbt+ (acronimo che sta per lesbiche, gay, bisessuali e transgender), non bianca o disabile; 3) il distributore del film deve assumere apprendisti o stagisti retribuiti appartenenti a minoranze; 4) ci devono essere dirigenti donne, Lgbt+, non bianchi e/o disabili all’interno dei team di marketing, pubblicità o distribuzione.

Per i due anni precedenti al 2024, i candidati per il Miglior film dovranno attenersi comunque ai nuovi criteri, ma non saranno squalificati se non raggiungono il benchmark (ovvero due criteri su quattro). Per ora i cambiamenti interesseranno solo la categoria Miglior film, mentre la Berlinale ha recentemente annunciato l’eliminazione delle categorie Miglior attore e Miglior attrice protagonista: al suo posto ci sarà semplicemente Miglior interprete.

Le “quote” diversità sono davvero utili?

Come nella pubblicità e nella moda, dove negli ultimi anni abbiamo visto comparire sempre più donne non bianche, non necessariamente magre, molto diverse dall’idea stereotipata di modella, anche il cinema cerca dunque di aprirsi a una rappresentazione più equa, che includa tutte quelle “categorie” di persone che ne sono state storicamente escluse. Tuttavia, non sono mancate le polemiche, tra chi sostiene che le “quote diversità” non risolveranno il problema alla base e chi invece ha fatto notare che i criteri non sono niente di così innovativo e che tutti i film nominati negli ultimi dieci anni possono tranquillamente soddisfarli.

«L’Academy annuncia un passo in avanti per una maggiore rappresentanza, ma allo stesso tempo sembra voler rassicurare che non cambierà nulla di sostanziale. Allora, qual è il punto di tutto questo?», si è chiesto Nate Jones su Vulture. Intanto il fatto di “ufficializzare”, trasformando una tendenza già esistente in regola, aiuta il processo di normalizzazione di queste procedure: una tendenza, un’abitudine, può infatti anche essere ignorata, mentre una regola no. Ed è soprattutto una presa di coscienza da parte dell’Academy, che così riconosce il suo ruolo di portavoce dell’industria cinematografica e si prende le responsabilità dei problemi del settore. Insomma, checché se ne dica è un passo in avanti.

E in Italia?

Com’era già successo per il #MeToo, la discussione intorno a questi temi è molto diversa in Italia rispetto a quella americana. Recentemente, ad esempio, si è molto parlato del Festival della Bellezza di Verona, in programma per lo scorso 12 settembre. Il calendario di eventi ha scatenato sui social l’hashtag #tuttimaschi, visto che sono stati chiamati 24 relatori uomini e due sole donne, la pianista Gloria Campaner, che avrebbe dovuto accompagnare l’intervento dello scrittore Alessandro Baricco, e l’attrice Jasmine Trinca, in qualità di ospite.

Come ha scritto Michela Murgia: «La quota media di partecipazione femminile ai programmi dei festival italiani degli ultimi dieci anni non supera quasi mai il 15%, ma spesso è inferiore, fino ai casi dove si azzera del tutto», mettendo in evidenza come nel nostro Paese si faccia ancora fatica ad assicurare gli stessi spazi di visibilità alle donne, figuriamoci alle minoranze. Per quanto certi risvolti del dibattito americano non appartengano alla nostra sensibilità culturale, e ci sembrino esagerati e fuori contesto, la realtà rimane in Italia rimane questa: a un Festival dove si parlava di eros, corpo e bellezza femminile, nessuno ha pensato di invitare delle donne.