«Di’ alle mamme di non avere paura del rap: è uno strumento utile, se lo si sa usare». Paola Zukar, 48 anni e una figlia di 14, è la manager di Fabri Fibra, Marracash e Clementino. Nel mondo rap ha iniziato a lavorare da ragazza e oggi ne è una delle figure più importanti: donna in un ambiente dove dominano maschi e testosterone. Perché sostieni che è uno strumento utile? Perché è un genere musicale che affronta temi mai scontati, che guarda sempre un po’ al di là di quella realtà che alle volte ci viene servita cotta e mangiata. Perciò credo che possa offrire ai ragazzi un’altra chiave di lettura, che raramente ti danno la tv, i social, la musica tradizionale italiana. Io e mia figlia ogni tanto ascoltiamo delle canzoni insieme. A volte trattano temi scottanti o imbarazzanti, è vero, però ci danno un’occasione per parlare di cose che forse altrimenti non avremmo il coraggio di affrontare.

Quali? Il malessere sociale, familiare, culturale. La droga, la noia che porta a fare delle idiozie, la disoccupazione. Cose scomode, fastidiose, che però esistono e vanno raccontate. Il rap lo fa in modo artistico, ovviamente, però senza ipocrisia. Negli altri generi questo approccio manca.

Perché hai scelto un lavoro così? (Ride, ndr). Non è un lavoro che si sceglie, nessuno ti assume per farlo. Devi creartelo. Per me è nato da una passione: sono andata negli Usa negli anni ’90 per capire com’era questo mondo musicale e culturale. Ho incontrato e intervistato i più grandi per la rivista di rap per cui lavoravo, Aelle. Così mi sono formata. E una volta tornata qui, per fortuna ho incontrato persone che mi hanno incoraggiata a portare il rap in Italia. Ha funzionato. Donne e rap nel nostro Paese di solito non si conciliano. Il mondo del rap è meritocratico, io credo sia il meno sessista. Non mi è stato fatto mai pesare il fatto di essere donna: sono sempre stata giudicata per i risultati che ho portato.

Comunque sei “la capa” di molti maschi. Non sono la capa. Ci tengo a dirlo. Devi calcolare le percentuali: un artista prende più o meno l’85% degli introiti, io il 15. Come vedi, sono tutt’altro che il boss. E questa legge vale sia per i manager uomini sia per i manager donne.

Però sei tu che dici agli artisti cosa devono fare. Anche questo mito che il manager sia il burattinaio è da sfatare. I rapper che seguo sono tutti autori dei propri testi, non aspettano suggerimenti. Io li affianco. Arriva l’idea, ci si confronta, si lavora in gruppo. E può capitare che un mio parere contrario finisca in nulla.


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Le parolacce in certe canzoni non ti mettono a disagio? Secondo me, scandalizzarsi davanti alle parolacce è un atteggiamento molto ipocrita. In casa scappano, i ragazzi le usano come intercalare: è un modo per sentirsi più grandi che imitano dagli adulti. A differenza degli americani, gli italiani hanno anche la pessima abitudine di bestemmiare: e poi si indignano se in una canzone sentono parole forti?

Come la metti con il sessimo? Il ragionamento è lo stesso. Ci si sdegna per le parole di una canzone, mentre con mogli e compagne ci si comporta come se fossimo nel Medioevo… Io penso che quando una cosa è esplicita sia più facile da individuare e da capire.

Perché sono così poche le rapper? È un genere musicale competitivo. Quasi a livello agonistico. La competitività viene spesso tradotta in aggressività, che non è una caratteristica femminile. Negli ultimi anni però vedo, soprattutto all’estero, tante ragazze che si lanciano nel rap. Vedrai che anche da noi la situazione potrebbe cambiare presto.

E i cantanti che segui come si comportano? Con Fabri Fibra lavoro da 11 anni, con Marracash da 9. Anche con Clemente collaboriamo da diverso tempo. Con loro c’è il massimo della professionalità. Sul lavoro non si sgarra. E fuori non ci frequentiamo, perché ognuno ha la sua vita. Io sono una mamma di una ragazza
che va a scuola, abbiamo i compiti e gli impegni extrascolastici. Le giornate sono già piene.

Perché hai portato Clementino a Sanremo? In realtà è stato lui a portare me. Clemente ha una passione per la tradizione del Festival e si è sempre esibito con brani giusti per l’Ariston. Però penso che Sanremo sia inutile per il rap. Come spieghi agli spettatori che il rap si fa in rima, che non contano il timbro e le note che riesci a prendere bensì le metriche, le parole che unisci e come le unisci? Il posto migliore per il rap è il web, perché è aperto. E non è un problema se dici le parolacce. Però il rap non è solo da vivere per conto proprio con le cuffie in testa: ci sono tanti locali dove ascoltarlo dal vivo, ballare, confrontarsi.