«Non fuori dal mondo ma abbastanza lontano dal mondo da non sentirne più il rumore». Il senso di Paolo Cognetti per la montagna, nota Crocifisso Dentello su il foglio, è racchiuso in questa frase che ha scritto nell’introduzione a Walden di Henry David Thoreau, un libro diventato fondamentale per chi sogna di immergersi nella natura. A metà dell’800 Thoreau raccontava 2 anni di vita nei boschi, in fuga da una società diventata per lui insostenibile. Senza però allontanarsene troppo. Il suo era un esperimento, la ricerca di un rifugio dove essere felice. La scelta di Paolo Cognetti non è così radicale ma la passione è la stessa: da diversi anni il suo respiro e il suo spazio vitale sono a Estoul, paesino di 15 abitanti sopra a Bresson, in Val d’Ayas. 1.815 metri d’altitudine, prati verdi d’estate e neve abbondante d’inverno, sullo sfondo le cime della Valle d’Aosta.
Qui è dove sono nati Le otto montagne, Premio Strega nel 2017, e il nuovo romanzo La felicità del lupo, entrambi pubblicati da Einaudi. E qui è dove Cognetti vive insieme all’inseparabile cane Lucky, prima in una baita, ora in un rifugio che «è un edificio contemporaneo, pur utilizzando come materiali legno e pietra». Intorno silenzio e quiete, un panorama dove si perde lo sguardo. E il Monte Rosa che domina tutto, impassibile.
Cosa vuol dire stare in montagna
Ma cosa vuol dire stare lassù? «È una cosa che è cambiata col tempo perché all’inizio era un desiderio di solitudine e concentrazione, mentre adesso, dopo 13 anni, ho delle relazioni importanti. Direi quasi che qui ci sono i miei migliori amici» mi racconta lo scrittore. Gli amici sono Babette, che ha un ristorante che si chiama Il pranzo di Babette (come il film di Gabriel Axel e il romanzo di Karen Blixen), Barbara, artista del rifugio, e Gabriele “che adesso è libero come il vento”, che compaiono nella dedica di La felicità del lupo. Il protagonista del libro è Fausto, detto Faus, e, nel paesino di montagna che lì si chiama Fontana Fredda, si improvvisa cuoco, come lo stesso Cognetti appena arrivato a Estoul. E chissà se esiste la Silvia di cui Faus si innamora…
«Tutti mi dicono: “Ah che bello, chissà come si sta bene, chissà che pace, chissà che silenzio”. Poi su non c’è nessuno. Allora mi chiedo: ma tutte queste persone che mi dicono “ah che bello” perché non ci vengono a stare? Davvero, perché non possono? Chiunque sia abituato alla vita in città qui nella pace e nel silenzio dopo 3 giorni scappa via. A Estoul, il villaggio dove vivo, l’anno scorso sono arrivati 5 abitanti nuovi: su 15 che eravamo prima è un grosso cambiamento. È una coppia di 40enni con 3 bambini. Ed è bellissimo vederli scorrazzare tra le 4 galline e i 2 cani che sono rimasti. C’è gioia in questa riscoperta della montagna. Proprio per questo la felicità è una parola chiave del mio libro: sono persone che vengono qui perché cercano la felicità».
In montagna è tutto diverso
Il motivo è presto detto: in montagna è tutto diverso. «Soprattutto per il paesaggio che hai intorno e questa dimensione di grandi spazi che in città ci siamo dimenticati. Il sistema in cui ci muoviamo tra i palazzi è fatto di regole, posti in cui non si può andare, proprietà private, scontri con i passanti. Invece l’idea di avere davanti alla finestra un torrente e un bosco, e di uscire di casa e prendere un sentiero dove poter camminare per ore, è qualcosa di unico. Anche la possibilità di vedere cambiare la natura ogni giorno. In città in inverno ci mettiamo la giacca pesante oppure usciamo con l’ombrello. E per il resto la nostra quotidianità non cambia affatto. In montagna invece la tua vita cambia con le stagioni: cambiano i lavori che fai, i posti dove puoi andare, cambia tanto anche l’umore. Io per esempio soffro un po’ l’autunno e l’inverno, mi viene una gran nostalgia. Ogni tanto scappo e non vedo l’ora che venga la primavera».
Il libro Le otto montagne
In Le otto montagne c’era l’iniziazione: il ragazzino, il padre, l’amicizia. Nell’ultimo romanzo, e nelle parole di Cognetti, c’è invece il vivere la montagna come è ora. Un rapporto che condivide con gli amici Nicola Magrin, illustratore (anche delle sue copertine) e compagno nel viaggio da cui è nato il film Sogni di grande Nord, e Vasco Brondi, musicista. È un amore che sta seminando nel suo pubblico: «Per la prima volta vedo che ci sono anche dei ragazzi più giovani che mi guardano, sono curiosi di sapere e mi fanno domande, che è una cosa che mi mette molto in difficoltà. Però sono contento che l’idea di montagna cambi, come tutto il resto del mondo, che non stia lì ferma. Eravamo abituati a pensarla come la montagna dei vecchi, delle tradizioni, dell’identità culturale. È diventata in parte anche la montagna di chi va su a cercare qualcosa per sé, una nuova vita, un luogo dell’anticonformismo. L’importante è che non sia toccata ma, anzi, preservata dallo sfruttamento».
La montagna di Paolo Cognetti
La montagna di Cognetti non è certo quella delle piste da sci e delle vacanze di Natale. Non solo. Lui, come scrive nel libro, scia con i jeans – «volevo fare dell’ironia sull’ossessione per l’abbigliamento tecnico» – e nel look sembra sempre più un montanaro – «ma sai, sono sempre stato così, se vedi le mie foto di quando avevo 20 anni non è che sono cambiato molto». Forse per questo è stato accolto bene nella comunità di Estoul. «All’inizio ero uno sconosciuto che abitava in una baita e non si sapeva bene cosa facesse. Dopo un po’ ho iniziato a fare il cuoco da Babette, nessuno mi notava. Ma dopo il successo dello Strega e quando sono arrivate le troupe della tv qualcuno si è un po’ infastidito. Credo che sia normale. Però la maggior parte è contenta, anche perché agitare un po’ le acque in un paesino di montagna è divertente».