Non se ne vanno più, restano figli per sempre. Preferiscono la calda, rassicurante “cuccia” di famiglia, piuttosto che diventare adulti. Sono i giovani maturi che vivono con mamma e papà. In Francia li chiamano “generazione Tanguy”, da un caustico film su un ventottenne mammone che accumulava lauree pur di non lasciare l’appartamento dei genitori. Ma è in Italia che questo comportamento raggiunge dimensioni da primato in Europa. Riguarda, secondo l’Istat, 7 milioni e 600 mila ragazzi, il 60 per cento dei giovani tra i 18 e i 34 anni. Paolo Crepet, uno dei più noti psichiatri italiani, analizza questo fenomeno nel suo nuovo saggio: I figli non crescono più (Einaudi-StileLibero). E in questa intervista punta il dito contro i rapporti familiari di oggi dove, denuncia Crepet, l’affetto si mescola alla dipendenza reciproca, e i sensi di colpa fomentano il permissivismo, formando una miscela esplosiva.
Crepet, la mancata autonomia dei ragazzi è davvero così diffusa?
«È un dramma sempre più frequente, come mi raccontano i genitori nelle conferenze che tengo in giro per l’Italia. Per esempio, durante una di queste, sono stato avvicinato da un piccolo imprenditore, uno di quegli uomini tosti, che si sono fatti da soli. Mi ha confessato il suo grande cruccio: il figlio di 28 anni, che a parte due esami l’anno all’università, passa le sere in discoteca e si fa mantenere dai genitori.
“Come mi comporto?” mi ha domandato. “Lo prendo a calci o mi rassegno al suo stile di sopravvivenza?”».
Il libro di Paolo Crepet I figli non crescono più (Einaudi-StileLibero) è sul Bol.com
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Lei cosa gli ha risposto?
«Che come genitore ha il diritto e il dovere di dire basta: “Vuoi stare a casa senza fare niente? Allora quella è la porta!”».
Non è facile. I ragazzi oggi sono convinti che la famiglia abbia l’obbligo di mantenerli a oltranza. Per legge.
«Sbagliano. Esistono, è vero, diverse sentenze della Corte di Cassazione che impongono ai genitori di mantenere un figlio anche dopo i 18 anni, purché studi o sia ancora in cerca di lavoro. Ma il diritto cade se il ragazzo non s’impegna sul serio, o se guadagna abbastanza da vivere da solo».
Insomma, a una certa età, bisogna costringerli ad andarsene?
«È una soluzione difficile, mi rendo conto. Ma talvolta è l’unica arma che abbiamo per costringere un figlio a reagire. Quando cerco di spiegarlo ai genitori, mi accorgo subito dalla loro faccia che stanno pensando: “Questo qui è pazzo!”».
Crede sia colpa della famiglia se un ragazzo non cresce?
«Diciamo che è il risultato di tanti: “Sì, va bene, non importa”. Di una cultura dell’educazione che va avanti da anni. Per malinteso senso d’amore, oggi i genitori pensano che frustrazioni e dolore siano inutili zavorre nella mongolfiera dei figli. Sono convinti che senza quei pesi i ragazzi potrebbero viaggiare più leggeri e veloci. Invece si verifica l’esatto opposto. Una vita senza ostacoli li rende fragili, annoiati, immaturi».
Non vorrà riproporci la solfa che per crescere bisogna soffrire?
«E invece sì. Il dolore fa parte della crescita. Dà il senso del limite, ridimensiona il desiderio di onnipotenza degli adolescenti. E spesso affina delle qualità. Il regista Pupi Avati mi ha raccontato che, da ragazzo, aveva il complesso di non essere bello, e a ogni festa se ne stava in disparte, dolorosamente, a osservare gli altri. Ma studiare da lontano la fauna umana è diventato poi un talento che ha riversato nei suoi film».
Il libro di Paolo Crepet I figli non crescono più (Einaudi-StileLibero) è sul Bol.com
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Secondo questa teoria, chi è ricco e bello diventerà, per forza, un mammone viziato.
«In genere ha una vita più semplice. Molto dipende, però, dall’atteggiamento dei suoi genitori. Se gli appianano ogni difficoltà è il disastro. Faccio un esempio. Tra i miei pazienti c’è una madre divorziata con due figlie adolescenti. L’ex marito, forse in colpa per la fine del matrimonio, ha regalato alle figlie un appartamento a testa. In questo modo, però, ha tolto alle ragazze un po’ di sana rabbia, di coraggio e abnegazione nell’ottenere un risultato, come l’acquisto di una casa. Ha cancellato alcuni dei passaggi obbligati nella crescita di un giovane».
In fondo, ha commesso solo un peccato d’amore.
«Ma i danni li ha fatti lo stesso! È un errore classico delle famiglie moderne, fondate sugli affetti. Tra genitori e figli c’è molto più amore. Ma anche tanti sensi di colpa. I genitori sono più consapevoli di un tempo dei doveri nei confronti dei ragazzi, ma sono anche stracarichi d’impegni, di lavoro. Così finiscono spesso per sentirsi inadeguati, e diventano più propensi a dire di sì ai figli. È un meccanismo inconscio. “Stasera sono arrivata tardi”, dice a se stessa una madre stanca, di ritorno dall’ufficio. “Devo farmi perdonare, non posso essere troppo severa”».
Un genitore, invece, dev’essere inflessibile?
«Per carità. In generale, però, un padre o una madre che vogliono fare gli educatori dovrebbero spiegare ai figli che la vita bisogna guadagnarsela, sogni compresi. E che è una strada in salita. C’è una splendida poesia dove Gianni Rodari scrive che bisogna insegnare ai bambini a fare le cose difficili».
In concreto, cosa significa?
«Per esempio, non accontentarsi di ciò che si è, ma provare a migliorarsi, buttarsi nella mischia, sperimentare. Come ripeteva la madre a quel musicista geniale di Ray Charles. Era una donna analfabeta ma saggia. Obbligava il figlio piccolo e cieco a orientarsi da solo nella casa, strisciando lungo le pareti, urtando contro i mobili. Guardarlo la faceva piangere, ma sapeva che era l’unico modo per insegnargli a capovolgere un destino segnato».
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In altre parole, un genitore deve aiutare il figlio a farsi gli anticorpi per affrontare la vita. Anche a costo di vederlo soffrire?
«Certo che sì. La realtà, poi, di solito non è drammatica come l’infanzia di Ray Charles. Basta fare esperienze fuori dal nido per diventare più robusti. Un genitore dovrebbe incoraggiare i figli a trascorrere un periodo di studio o di lavoro all’estero. Non c’è ragazzo che abbia frequentato un’università straniera, grazie all’Erasmus, che sia tornato peggiore di come è partito. In ogni caso, ha imparato a lavarsi le mutande, cucinare, fare la spesa: passi verso l’indipendenza. Si sarà reso conto che i giovani a Amsterdam o Parigi non sono uguali ai suoi amici italiani».
È così importante?
«Fondamentale. Questo è confronto, avventura. Se non li pratichi, non cresci. Resti come quella ragazza che ho incontrato in un liceo di Forlì, convinta che d’estate non ci sia niente di meglio che passare le vacanze a Rimini, ballando tutta la notte. Cioè rivivere un’esperienza che conosce a memoria. Senza sorprese».
I genitori dovrebbero opporsi a una vacanza del genere?
«Se sono contrari, sì. Hanno tutto il diritto di dire al figlio: “Vuoi andare sulla riviera Romagnola? Vai pure, ma con i tuoi soldi. Noi siamo disposti a pagarti un viaggio a Londra per imparare l’inglese”».
Non si corre il rischio di farsi odiare per sempre?
«Forse. Oppure di aiutare i figli a spiccare il volo. È il caso di Nello, un artigiano del Nordest, con un figlio simpatico, intelligente, ma pigro. Un bel giorno Nello s’è stufato di vederlo bighellonare per casa ed è esploso. “C’è una novità” gli ha detto. “Da domani sei fuori, cambio la serratura. Se vuoi ti pago il master negli Stati Uniti di cui abbiamo tante volte parlato. Prendere o lasciare”».
Come ha reagito il figlio?
«Con il cuore gonfio di rancore, è partito per l’America. Tre anni dopo è tornato, col master, e ha aperto un’azienda tutta sua. L’impresa va bene, oggi lui è un uomo felice. Prendiamo sul serio questo esempio: i nostri figli tra pochi anni dovranno misurarsi con una realtà grande come l’Europa. Chi non si sarà fatto le ossa all’estero, rischia di essere tagliato fuori. Accade già oggi».
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In che senso?
«La stragrande maggioranza dei ragazzi che lavora ha un contratto precario, a tempo determinato. Due giovani su tre non sono in grado di affittare un appartamento, perché non possono fare previsioni sull’immediato futuro. Ovvio che in questa situazione l’unica certezza, materiale e psicologica, sia la famiglia, la casa di mamma e papà».
Eppure, spulciando tra le ricerche dello Iard, l’istituto che da anni studia il mondo giovanile, si scopre che il 57 per cento dei mammoni nostrani ha un regolare stipendio. Insomma potrebbe vivere per conto proprio.
«Certo. Questo accade soprattutto in quelle famiglie dove padri e madri non incoraggiano l’autonomia, perché sono loro stessi dipendenti dai figli. Molti genitori hanno il terrore del distacco, la sindrome del nido vuoto».
Non sta esagerando?
«Macchè. Vedo colleghe psichiatre, donne colte, in gamba, angosciate all’idea che il figlio scelga un’università a trecento chilometri da casa: “Come farà, povero amore mio?”. Pazzesco! Io imporrei per legge l’obbligo di studiare in una città diversa. Purtroppo anche la nostra società rispecchia quest’idea di famiglia simbiotica. Quanti Comuni hanno creato strutture di accoglienza dignitose per gli studenti fuori-sede? Pochissimi, perché si dà per scontato che i giovani studino vicino a mamma e papà».
A parte spedirli lontano, qual è il miglior regalo che un genitore può fare ai figli?
«Investire nella loro cultura. Riservare un capitolo consistente della spesa familiare a questa voce. Penso a corsi di lingue, viaggi, stage. E, quando sono piccoli, è fondamentale scegliere la scuola giusta. Oggi, con gli stipendi modesti che si ritrovano, i professori non hanno più voglia di arrabbiarsi, di fare una vera selezione degli alunni capaci e di incoraggiare il talento».
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Cos’è per lei il talento?
«Quella dote di cui parlava una grande pedagogista come Maria Montessori: avere capacità critica, non adeguarsi alle formule che ti vengono proposte ma leggerle a modo tuo, essere uno spirito libero. Qualsiasi talento nasce dall’irrequietezza, mentre nella scuola di oggi si respira un clima militaresco. Ti insegnano a stare al tuo posto, a indossare il grembiulino per non sporcarti come se rimanere incontaminato fosse un merito».
E se un giorno, scoprissimo di aver sbagliato con i figli, di essere stati troppo teneri, avremmo il diritto di pentirci?
«Sarebbe un giorno magnifico. In quel caso dovremo dire al nostro ragazzo o alla nostra ragazza: “Ho capito una cosa straordinaria, ho sbagliato tutto! Da domani è guerra”. Ma poi dovremmo essere capaci di restare su questa posizione. La coerenza è la prima regola di un buon genitore».
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