Da più di quindici anni, io e altri svariati milioni di persone quando in televisione trasmettono Il commissario Montalbano, abbandoniamo lo zapping e ci mettiamo a guardarlo anche se quella è la due o la trecentesima replica dello stesso episodio; come se non bastasse io e altri svariati milioni di persone ci siamo comprati anche i dvd, casomai passassero più due mesi fra una messa in onda e l’altra dell’intera serie su Rai Uno.
Io me lo sono chiesto perché a me e ad altri svariati milioni di persone il commissario Montalbano ci piace così tanto.
E mi sono dato alcune brevi risposte:
– è forse la serie di fiction fatta meglio in assoluto della storia della televisione italiana (almeno all’inizio, anche una delle più costose) e quindi anche la più esportata;
– è tratta da romanzi dall’immaginazione solidissima, come quelli di Andrea Camilleri, che trovano un naturale proseguimento nelle sceneggiature scritte soprattutto con Francesco Bruni e Salvatore De Mola;
– ha attori incredibili, diretti con sapienza dal regista Alberto Sironi, anche per i ruoli minori o addirittura per personaggi che hanno solo una battuta o un monologo (come dimenticare il pastore convinto di aver visto una macchina targata Acireale e, quando Montalbano gli fa notare che è una provincia inesistente, lui risponde arrabbiato: «E chi ì fici iu le province?»);
– tutti vorremmo vivere a casa di Salvo Montalbano, con quella terrazzina che arriva sul mare e bere un bianco fresco e frizzante e mangiare pesce cucinato divinamente da Adelina (di cui vanno menzionati almeno anche gli arancini) o da Calogero, il ristoratore di fiducia;
– non c’è un solo componente del commissariato di Vigata a cui non affideremmo le chiavi di casa (compreso quel pasticcione di Catarella) ed è bello passare una serata, seppur virtualmente, con persone di cui potersi fidare.
Ma nessuna di queste risposte è in grado di spiegare in profondità un successo così longevo e importante. La risposta vera forse gira attorno alla figura di Salvo Montalbano (su cui incide senz’altro anche il peso dell’interpretazione di Luca Zingaretti).
Montalbano è l’eroe del buon senso a differenza di tanti eroi della legge. Sebbene la sua legge interiore – ciò che lui ritiene giusto – spesso coincida con quella ufficiale – ovvero ciò che lo Stato ritiene giusto -, la sua vera forza è la capacità, invece, di capire la realtà e di schierarsi di volta in volta, in modo elastico, con ciò che è più giusto secondo il proprio senso profondo di umanità.
Spesso, con questo atteggiamento, Montalbano risparmia pene inutili a poveracci che si sono macchiati di piccoli crimini e li trasforma in alleati, coinvongendoli loro malgrado in un processo vero di rieducazione (come accade con il figlio di Adelina) e, al contrario, si mostra spietato con i potenti, per esempio i mafiosi, quand’anche fossero pentiti (don Balduccio). Montalbano arriva addirittura a lasciare che un pastore si ammazzi da solo per espiare la vergogna di aver messo al mondo un figlio assassino e la colpa di averlo ucciso.
Il momento di massimo scollamento fra la legge di Montalbano è quella dello Stato è all’inizio dell’episodio Il giro di boa. Montalbano pensa addirittura di lasciare la polizia a seguito degli atroci fatti del G8 di Genova (che accadevano proprio come oggi quattordici anni fa e che questo ultimo aprile la corte di Strasburgo ha condannato come violazione dei diritti umani).
In una realtà come quella italiana, dove la legge e lo Stato sembrano essere insufficienti a rispondere alle criticità di qualsiasi territorio, dove i cittadini si sentono spesso allo scoperto, dove la burocrazia soffoca qualsiasi iniziativa sana (e infatti l’antagonista ricorrente di Montalbano è proprio il questore, emblema del burocrate), è facile maturare l’ipotesi che un Montalbano sia proprio quello che ci servirebbe per rimettere le cose a posto. Il commissario Montalbano riempie con la narrazione una lacuna ampia della nostra società.
Con un’onestà intellettuale straordinaria, è lo stesso Montalbano a mostrarci però il suo lato oscuro. Il rischio di commettere degli errori quando il buon senso viene sopraffatto dai sentimenti: è l’ammissione di colpa nel finale de La forma dell’acqua, in cui protegge, senza che ancora ci sia una valida ragione, l’accusata Ingrid Sjostrom, la svedese con cui, per tutta la serie, è sempre sulla linea del tradimento (qualche volta forse superandola). «Aveva ragione Livia», ammette Montalbano, «Avevo agito come un dio». Le indagini gli daranno ragione, ma il metodo di azione resterà comunque sbagliato: ha falsificato la realtà per ragioni sentimentali.
Montalbano è così anche nelle relazioni umane. Onesto e contraddittorio – come lo sono tutti quelli che onesti lo sono davvero e che inseguono la non-linearità dei sentimenti – geloso e infedele, bugiardo, manipolatorio, leale quando è necessario, quando il buon senso lo richiede: questo è il suo ritratto di amante. Pure nelle relazioni, Montalbano è nemico della burocrazia, di tutte quelle formalità che si sostituiscono alla spontaneità, al bisogno vero di condivisione che esiste fra due persone.
Insomma, Montalbano è il compagno imperfetto e vero che ogni partner vorrebbe avere accanto. E per questo, una settimana sì e una settimana no, oltre che per l’ottima cucina e per la vista, ce ne andiamo a cena sulla terrazza di casa sua, gli uomini per prendere lezioni, le donne per sognare con lui.