«Una cosa così non si vedeva dai tempi di Harry Potter» giura un libraio di Bruxelles osservando la coda di lettori in attesa di acquistare l’ultimo libro di Philippe Boxho. Medico legale, direttore dell’Istituto di medicina forense dell’Università di Liegi, già definito la rockstar degli anatomopatologi, è autore di La parola ai morti. Indagini di un medico legale, caso editoriale del 2024, tradotto in 20 Paesi, 1 milione di copie vendute solo in Belgio e Francia, ora pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie. Oltre a un secondo libro uscito in Francia (un terzo e un quarto sono in arrivo), Boxho realizza podcast e affolla i teatri, con l’obiettivo di raccontare fuori dai cliché una professione che paradossalmente rimanda molto alla vita. Anzi, i suoi racconti di cadaveri e truculenti casi giudiziari, conditi da un sottile umorismo e un affettuoso senso di partecipazione, contengono molta, moltissima vita.
I tre segreti del successo di Philippe Boxho
Come spiega il grande interesse per la materia?
«Non me lo spiego. Ma autografando i miei libri, faccio molte domande e ho capito che in gioco ci sono tre ordini di motivi. Primo, si tratta di storie vere con un fondamento medico-legale autentico. Poi c’è la vicenda che costruisco attorno, romanzandola perché nessuno si riconosca: ai lettori piace il contesto forense, i dettagli crudi e, a quanto pare, anche il tono cinico e scanzonato con cui li narro. Infine, il libro è costruito a capitoli brevi. Si può leggere una storia e poi appoggiarlo sul comodino per mesi, anche se tanti mi confessano di averlo letto d’un fiato. Piace in particolare alle donne, molte mi rivelano di addormentarsi con la mia voce negli auricolari. Altro che rockstar!».
È diventato anatomopatologo per caso, assecondando la passione per il diritto e per la medicina, e ha rischiato pure di farsi prete. Che talenti deve avere chi si avvicina al suo mestiere?
«È necessario essere buoni osservatori: la medicina legale è la scienza del dettaglio. Conoscere l’anatomia, la fisiopatologia, che aiutano a capire perché un corpo sano a un certo punto muore. E avere grande pazienza. Il medico legale non fa altro che aspettare: che il magistrato arrivi sul posto, che gli addetti del laboratorio prelevino i campioni, che le pompe funebri portino il cadavere alla morgue. E quando un caso è chiuso, torna ad attendere che il telefono squilli. Non è un lavoro per impazienti».

L’esame del Dna e i cold case
L’esame del Dna, che consente di riaprire cold case come quello di Garlasco, fino a che punto ci autorizza ad andare indietro nel tempo per stabilire nuove verità?
«Raccogliere il Dna dalle unghie della vittima è l’abc di ogni anatomopatologo. Abbiamo recuperato e analizzato, dopo millenni, persino quello di Ramses II. Sicuramente il materiale trovato sulla vittima di Garlasco ha qualcosa da dirci anche a 17 anni di distanza».
Questo tipo di analisi ha rivoluzionato il suo mestiere, cosa si aspetta dal futuro?
«Non possiamo saperlo, non avevamo previsto nemmeno che le impronte digitali e il Dna ci aiutassero a identificare qualcuno, furono scoperte casuali. Ora l’applicazione dello scanner ha portato alle cosiddette autopsie virtuali, che però non ci dicono necessariamente di cosa una persona è morta, dopo serve comunque una vera autopsia. Chissà che ci riserva il futuro: un giorno là fuori qualcuno troverà qualcosa che non cercava e sarà una nuova rivoluzione».
Nelle fiction la figura del medico legale è rappresentata in maniera attendibile?
«Lì il medico legale è o una donna bellissima o un uomo anziano con qualche disabilità fisica o mentale. Pensiamo alla serie Quincy, un riferimento che rivela la mia età (è andata in onda dal 1976 al 1983, ndr): a inizio carriera i colleghi mi chiamavano così. Lui risolveva tutto con la tossicologia. La tv evoca espedienti spesso poco plausibili, elementi per lo più funzionali al racconto».
Philippe Boxho: «Le emozioni possono nuocere alle indagini»
Lei raccomanda di tener fuori l’emotività. Però dalle sue storie emerge un tratto di umanità toccante.
«Puoi lasciar venire a galla le emozioni solo alla fine del lavoro. Se te ne lasci travolgere devi passare la mano ad altri: ti impediscono di ragionare in maniera logica e questo nuoce sia all’indagine giuridica sia a quella medica. Non posso fare un’autopsia sul corpo di qualcuno che conosco: rischierei di perdere la neutralità e il raziocinio necessari».
Le è successo?
«Il rischio è altissimo quando si tratta di bambini. Una volta ho avuto enormi difficoltà con l’esame del cadavere di una persona che conoscevo. Non c’era nessun altro che potesse eseguirlo. Mi sono detto che quello era l’ultimo favore che gli facevo».
Le autopsie raccontano le trasformazioni sociali
Cosa ci dicono i corpi delle trasformazioni sociali?
«Che un 60enne di oggi sembra molto più giovane di un 60enne delle generazioni precedenti. Mediamente la gente gode di maggior salute, si cura di più. Non notiamo più le malformazioni di un tempo. O malattie professionali come la silicosi dei minatori. Una volta le donne portavano tracce degli aborti clandestini provocati con mezzi di fortuna: ferri da maglia, acqua saponata. Al loro posto vedo tanti tossicodipendenti, magri e sdentati, molti più alcolizzati. Ci poi sono i morti che nessuno reclama».
Come Gene Hackman e la moglie.
«Vedere defunti fa parte del lavoro, ma constatare il disagio sociale, la solitudine, persino l’oblio in cui alcune persone vivono e muoiono, è più difficile».
Omicidi e suicidi registrano differenze di genere?
«Nei suicidi le donne hanno la tendenza ad annegarsi o assumere farmaci, gli uomini prevalentemente s’impiccano o si sparano. Quanto agli omicidi, i maschi sono più violenti: picchiano, usano il coltello. Le donne raramente commettono omicidi, se lo fanno ricorrono ai veleni. Sanno che esiste il divorzio e preferiscono magari farla pagare ai mariti diversamente…».
Philippe Boxho: «Il mio libro è un inno alla vita»
Come è cambiato negli anni il suo rapporto con la morte e con la vita?
«La morte in sé non mi fa paura, mi preoccupa più il modo. Per il resto, non serve questo mestiere per sapere che tanto si muore tutti. Quanto alla vita, proprio per questo approfitto di ogni momento, non mi dedico agli eccessi, quelli alla mia età li paghi, ma mi godo tutto ciò che arriva, perché un giorno finirà».
Ci insegna a sorridere “prima che sia la morte a sorridere di noi”. È per questo che piace?
«Le mie storie aiutano ad affrontare un tabù. Alcuni psicologi mi riferiscono di aver adottato il libro come terapia con le persone ossessionate dalla fine, pare che funzioni, almeno temporaneamente. Potremmo suggerire un rimborso da parte del Servizio sanitario!».